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Sequenziare l’intero genoma per diagnosticare l’indiagnosticato

L’approccio utilizzato per individuare la causa delle malattie genetiche rare andrebbe cambiato: è quanto suggeriscono gli autori di uno studio appena pubblicato sul New England Journal of Medicine dopo aver dimostrato che il sequenziamento dell’intero genoma (Whole Genome Sequencing, WGS) permette di giungere a una diagnosi plausibile per individui con malattie rare, laddove il sequenziamento dell’esoma (Whole Exome Sequencing, WES) – ovvero delle sole sequenze codificanti (esoni) – fallisce

L’obiettivo è aumentare le diagnosi delle malattie genetiche rare. Gli autori dello studio pubblicato su NEJM hanno sequenziato il genoma dei membri di 822 famiglie che si sospettava avessero una malattia monogenica rara, ma il cui esame WES aveva dato esito negativo. Grazie al WGS hanno identificato una variante genetica nel 29,3% delle famiglie. I ricercatori hanno verificato che in molti casi la variante causale poteva essere identificata anche rianalizzando i dati di WES con metodi aggiuntivi, ma che circa l’8% delle diagnosi sarebbero state impossibili senza WGS. 

 “È un risultato simile a quello raggiunto nel programma Malattie senza diagnosi di Fondazione Telethon di cui sono stato responsabile dal 2016 al 2019 presso l’Istituto Telethon di Genetica e Medicina (Tigem) di Pozzuoli (NA)” – racconta  a Univadis Italia Giorgio Casari, già direttore del reparto di Genomica Clinica dell’Istituto Scientifico San Raffaele di Milano. “Si tratta di un progetto ancora in corso che raccoglie soprattutto pazienti pediatrici che affrontano una vera e propria odissea diagnostica, girando, anche per anni, diverse cliniche pediatriche senza ottenere una diagnosi”.

Bisogna fare i conti con le risorse: Casari spiega che oggi si utilizza il WES primariamente per una questione di costi. “In Italia – dove, a differenza di quanto avviene in UK e USA, non ci sono accordi commerciali tra la sanità e l’azienda che ha il monopolio della commercializzazione dei reagenti, della strumentazione e dei software di analisi per il sequenziamento del genoma – il WES costa qualche centinaio di euro, mentre il WGS poche migliaia”. 

In molti casi il WES può comunque essere sufficiente. “La maggior parte delle mutazioni che abbiamo trovato quando abbiamo sequenziato il genoma erano mutazioni esoniche” riferisce, spiegando che il fatto che fossero sfuggite al primo esame poteva dipendere dai protocolli usati anni prima e che forse con i protocolli di WES più recenti sarebbero state individuate subito, in quanto “sono tecnologie che si aggiornano ogni 6-12 mesi al massimo, diventando sempre più risolutive”.

Il WES interroga circa l’1% del genoma, il WGS invece l’intero genoma, permettendo di individuare anche mutazioni introniche e riarrangiamenti del genoma (come inversione di esoni e copy number variation). “Stiamo assistendo a un processo inarrestabile di decremento dei costi di sequenziamento”, sostiene Casari, aggiungendo che “quando il costo non sarà più un problema forse si sequenzierà direttamente il genoma, per ora si ricorre al WES e si riserva il WGS ai casi negativi”.

Le sfide da affrontare 

Le diagnosi vengono attualmente fatte usando sequenze brevi (short-reads), ma esistono già tecnologie long-read next-generation sequencing (NGS), che permettono di “leggere” sequenze di genoma di alcune migliaia di basi e presumibilmente di identificare varianti non visibili con le sequenze corte. Il long-read NGS è per ora appannaggio di pochi laboratori di ricerca perché estremamente costoso.

Quando si parla di costi di sequenziamento si pensa al costo dei reagenti, degli strumenti e del personale coinvolto, ma difficilmente ci si immagina che ci sono costi legati alla mole di dati prodotti. “Secondo le indicazioni della Società Italiana di Genetica Umana, dobbiamo conservare per parecchi anni i dati di sequenziamento e il mantenimento dei dati sta diventando un costo importante” dice Casari, spiegando che lo storage informatico deve prevedere opportuni sistemi di sicurezza poiché i dati genetici sono dati sensibili. Per ridurre i costi si potrebbe decidere di salvare come file solo le informazioni testuali sulle mutazioni, ma ciò vorrebbe dire perdere informazioni che potrebbero essere rianalizzate a distanza di tempo con nuovi algoritmi.

Passando da esoma a genoma cambia radicalmente anche la capacità computazionale necessaria. Nel primo caso si sequenziano 30 megabasi (la somma di tutte le basi del DNA delle sequenze codificanti), nel secondo caso le basi sono 3 miliardi. La sequenza del paziente va poi allineata sulla sequenza di riferimento presente in banca dati e, se per l’esoma servono decine di minuti per completare l’allineamento, per allineare le sequenze dell’intero genoma il tempo va moltiplicato per 100. “Maggiore è la capacità di calcolo, più velocemente si ottengono i risultati. Se l’attività diagnostica ospedaliera dovesse basarsi sul WGS, gli ospedali andrebbero dotati di grossi computer in grado di fare queste analisi in tempi ragionevoli” puntualizza l’esperto.

Il significato delle varianti 

Un’ultima importante considerazione riguarda l’interpretazione dei dati. Come ammette il professore “oggi siamo relativamente bravi ad attribuire un valore alle varianti che toccano un esone: usando dei software riusciamo a ipotizzare il danno prodotto da una certa variante. Di contro, abbiamo ancora pochissime informazioni sugli effetti funzionali delle varianti introniche o intergeniche che vengono trovate mediante sequenziamento WGS”. 

E conclude: “Quando un genetista si mette a lavorare sulla mutazione, prima di fare il referto, guarda la letteratura di quel gene, la letteratura di quella mutazione (se c’è), va a cercare se ci sono modelli animali in cui hanno verificato se quella mutazione ha un effetto o meno, fa veramente un lavoro investigativo sul dato di sequenza. Mi aspetto che in un brevissimo futuro l’intelligenza artificiale ci aiuterà moltissimo in questo lavoro”.

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