Uno studio internazionale analizza 80 raccomandazioni in pediatria e indica come armonizzare la condotta terapeutica
La resistenza agli antibiotici è una delle più gravi emergenze sanitarie del nostro tempo. Non si tratta di una minaccia futura, ma di una crisi già in corso, che compromette la capacità della medicina moderna di curare infezioni comuni e potenzialmente letali. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel solo 2019 la resistenza antimicrobica è stata direttamente responsabile di 1,27 milioni di morti e ha contribuito a 4,59 milioni di decessi. Un dato particolarmente allarmante riguarda i bambini: un decesso su cinque ha coinvolto bambine e bambini sotto i cinque anni. La fascia pediatrica, per ragioni immunologiche e cliniche, rappresenta infatti il segmento più vulnerabile della popolazione.
Per contrastare questa deriva, l’OMS ha introdotto la classificazione AWaRe, che suddivide gli antibiotici in tre categorie: Access, Watch e Reserve. L’obiettivo è chiaro e ambizioso: entro il 2030, almeno il 70% delle prescrizioni globali dovrà riguardare antibiotici del gruppo Access, ovvero quelli di prima linea, considerati più efficaci e sicuri. Tra questi rientrano molecole come amoxicillina e penicillina, da privilegiare per il trattamento delle infezioni comuni.
Ma la realtà clinica, soprattutto in ambito pediatrico, è ancora lontana da questo traguardo. Lo dimostra un nuovo studio internazionale pubblicato su The Lancet eClinicalMedicine, coordinato da Susanna Esposito, docente di Pediatria presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università di Parma. L’indagine ha analizzato 80 linee guida pediatriche nazionali, evidenziando progressi significativi nell’adozione degli antibiotici di prima linea, ma anche criticità profonde nell’impiego delle terapie di seconda linea.
“I nostri dati mostrano che a livello globale c’è un buon allineamento per le terapie di prima linea,” spiega la professoressa Esposito, “ma ancora troppa eterogeneità per le seconde linee. In molti Paesi si ricorre ad antibiotici ad ampio spettro, che rischiano di accelerare la comparsa di resistenze.”
Il problema non è solo clinico, ma anche sistemico. Le linee guida pediatriche risultano spesso incomplete, obsolete o non armonizzate. In diversi Stati, gli antibiotici raccomandati non sono inclusi nelle liste nazionali dei farmaci essenziali, limitandone la disponibilità reale e rendendo difficile l’applicazione delle raccomandazioni internazionali. Questo genera una frammentazione delle pratiche terapeutiche, che si traduce in un uso eccessivo di molecole appartenenti alla categoria Watch, come cefalosporine e macrolidi, che dovrebbero essere riservate a situazioni specifiche e ben definite.
Il paradosso è evidente: mentre si compiono passi avanti nell’adozione degli antibiotici di prima linea, le seconde linee continuano a essere prescritte con troppa disinvoltura, spesso in assenza di indicazioni cliniche precise. “Se vogliamo raggiungere l’obiettivo Onu del 70% di utilizzo di antibiotici Access entro il 2030,” aggiunge la professoressa Esposito, “servono linee guida più armonizzate, basate sulle evidenze scientifiche e capaci di tenere conto delle peculiarità locali.”
Il messaggio che emerge dallo studio è inequivocabile: la lotta alla resistenza antibiotica richiede un’azione coordinata, globale e fondata su dati solidi. Non basta sensibilizzare i singoli prescrittori; è necessario intervenire a livello istituzionale, aggiornando le linee guida, garantendo la disponibilità dei farmaci essenziali e promuovendo una cultura della prescrizione responsabile.
In gioco non c’è solo l’efficacia delle terapie, ma la tenuta stessa del sistema sanitario. Ogni prescrizione inappropriata rappresenta un passo verso un futuro in cui curare un’infezione batterica potrebbe diventare impossibile. E in questo scenario, i bambini — i più fragili e i meno protetti — rischiano di pagare il prezzo più alto.





