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CAR‑T, il futuro è già qui. La ricerca traslazionale entra nel vivo

Prosegue il ciclo di approfondimenti sulle terapie avanzate in onco-ematologia. La seconda puntata è dedicata alla lezione di Francesco Annunziato sul dialogo tra laboratorio e clinica nelle terapie cellulari



AIL – Associazione Italiana contro Leucemie, Linfomi e Mieloma – ha recentemente concluso con successo la campagna solidale delle “Stelle di Natale AIL”. Anche nei giorni di festa i volontari continuano a garantire ascolto e supporto ai pazienti ematologici e alle loro famiglie, i canali di contatto consultabili sul sito www.ail.it sono sempre attivi. Parallelamente, AIL prosegue il suo impegno educativo e divulgativo, come in questa puntata dedicata all’intervento di Francesco Annunziato, professore ordinario di patologia generale, Direttore del Dipartimento di Medicina Sperimentale e Clinica e Direttore della SODc Diagnostica citofluorimetrica e Immunologica dell’AOU Careggi di Firenze.

Dalla cellula al paziente: ricerca traslazionale e terapie CAR‑T

Le terapie con cellule CAR‑T rappresentano uno dei modelli più avanzati di ricerca traslazionale nel campo dei tumori ematologici. Francesco Annunziato ha spiegato che questo approccio nasce da un processo integrato che unisce ricerca scientifica di base e pratica clinica, con l’obiettivo di sviluppare nuove cure e migliorare quelle esistenti. «Le cellule CAR‑T sono tra le terapie più innovative oggi disponibili» osserva, ricordando che il loro sviluppo è il risultato di molti anni di ricerca. La premessa scientifica è la capacità dei linfociti T di riconoscere con estrema specificità un bersaglio e colpirlo. Per i tumori del sangue, la ricerca di base ha identificato l’antigene CD19 come marcatore ideale e ampiamente espresso sulle cellule B maligne, come nella leucemia linfoblastica acuta e in alcuni linfomi non‑Hodgkin. Tuttavia, CD19 non è un antigene tumore‑specifico, ma tumore‑associato, e non è l’unico bersaglio oggi disponibile. Sono state sviluppate CAR‑T specifiche per l’antigene CD22, anch’esso tumore‑associato, e per l’antigene BCMA (B cell maturation antigen), fondamentale nel mieloma multiplo perché espresso sulle plasmacellule maligne e limitato alle cellule B mature sane. «Questi sono solo alcuni esempi» spiega Annunziato, «e attualmente sono in corso numerosi trial clinici che stanno sviluppando CAR‑T specifiche per altri antigeni tumorali, inclusi quelli dei tumori solidi». Nonostante le difficoltà applicative, anche in quest’ultimo ambito stanno emergendo risultati incoraggianti.

Il percorso che ha portato alla produzione delle cellule CAR‑T è stato lungo e complesso, caratterizzato da successi e insuccessi. La potenza dei linfociti T è nota da decenni, ma la possibilità di utilizzarli efficacemente contro le cellule tumorali è diventata concreta solo con l’avvento delle tecnologie di bioingegneria e ingegneria genetica. Queste tecnologie hanno permesso di modificare il modo in cui la cellula T riconosce il bersaglio, attraverso il recettore chimerico CAR, e di indurne l’espressione su tutte le cellule T ingegnerizzate. In altre parole, si ottiene una moltitudine di linfociti T tutti capaci di riconoscere lo stesso bersaglio e di annientarlo, chiarisce Annunziato. Questa fase ha richiesto anni di ricerca di base, sfociati poi in studi clinici di fase I, II e III.

L’esperienza clinica ha mostrato che questo è un approccio estremamente efficace, ma non tutti i pazienti rispondono in modo adeguato e alcuni, dopo una risposta iniziale positiva, possono andare incontro a recidiva. «È fondamentale capire perché alcuni pazienti non rispondono o perché la malattia si ripresenta» afferma Annunziato. Questo processo di conoscenza è definito “reverse translation”: si parte dalla ricerca di base per arrivare all’applicazione clinica, poi si osservano i risultati clinici per capire come migliorare ulteriormente la terapia.

Per affrontare queste sfide sono necessari anni di ricerca, il contributo dei pazienti che partecipano agli studi e ingenti finanziamenti, poiché si tratta di sperimentazioni molto costose. L’Università di Firenze opera in stretta sinergia con due Aziende Ospedaliere Universitarie: il Meyer per la pediatria e il Careggi per l’adulto. «Due realtà di eccellenza internazionale» sottolinea Annunziato, «dove lavorano gruppi di ricerca di rilevanza internazionale, tra cui quello coordinato dal professor Alessandro Maria Vannucchi». Questa collaborazione consente di promuovere trial clinici con arruolamento informato di numeri significativi di pazienti, valutati prima e dopo la terapia per migliorare interventi e outcome clinici.

Il modello CAR‑T, così complesso, può accelerare lo sviluppo di nuove cure e migliorare quelle già esistenti. Oggi si è arrivati alla quarta generazione di cellule CAR‑T, con le ultime due ancora in fase di sperimentazione preclinica e progettate per migliorarne efficacia e durata in vivo. Un esempio di evoluzione sono le cellule CAR‑T bispecifiche, ingegnerizzate per riconoscere due antigeni tumorali diversi contemporaneamente. Questa caratteristica aumenta la loro efficacia e la capacità di superare le strategie di evasione del tumore, soprattutto nei casi più complessi.

Il professor Annunziato porta l’esempio delle CAR‑T dirette contro CD19 e CD22, entrambi espressi dalle cellule B maligne. Questo approccio riduce il rischio di recidiva legata alla perdita di uno dei due antigeni, un meccanismo di resistenza purtroppo osservato in alcuni pazienti. «Il razionale è semplice» spiega: se la cellula tumorale perde l’espressione di uno dei bersagli, la CAR‑T può comunque attivarsi grazie al riconoscimento del secondo. Una strategia che aumenta la probabilità di colpire il tumore anche quando questo tenta di sfuggire alla presa.

Resta però un limite strutturale: le CAR‑T sono, per definizione, un trattamento personalizzato. Le cellule ingegnerizzate derivano dallo stesso paziente che dovrà riceverle; in caso contrario, verrebbero riconosciute come estranee dal sistema immunitario ed eliminate. Questo comporta un processo complesso: il paziente deve sottoporsi a leucaferesi per isolare i linfociti T, che vengono poi ingegnerizzati, espansi in vitro per ottenere un numero sufficiente di cellule omogenee e reinfusi solo dopo alcune settimane. «È un percorso costoso, lungo e caratterizzato da un’elevata eterogeneità dei prodotti finali» osserva il noto docente, poiché ogni preparazione è unica e dipende dalle condizioni biologiche del singolo paziente. Per superare questi limiti, la ricerca sta lavorando su un nuovo paradigma: le cellule CAR‑T “off the shelf”. Si tratta di cellule allogeniche, prelevate da un donatore e ingegnerizzate non solo per esprimere il recettore chimerico, ma anche per non essere riconosciute come estranee dall’organismo che le riceverà. «In sostanza, possiamo creare banche di cellule già pronte all’uso» spiega Annunziato. È un passo avanti rivoluzionario, che riduce tempi, costi e complessità, con risultati preliminari molto promettenti.

Un altro fronte di ricerca riguarda i tumori solidi. Per alcuni di essi sono già stati identificati antigeni bersaglio, specifici o associati, ma la vera sfida è permettere alle CAR‑T di raggiungere il tumore e penetrare nel parenchima tumorale, un ambiente ostile e difficile da attraversare. È una delle aree più attive della ricerca internazionale, con strategie che includono modifiche genetiche aggiuntive, combinazioni terapeutiche e nuovi vettori di attivazione.

La ricerca traslazionale è stata cruciale per il successo delle CAR‑T nei tumori ematologici e continua a essere il motore dell’innovazione. «La ricerca di base e traslazionale è fondamentale per capire come funziona il nostro sistema immunitario, come riconosce ciò che deve eliminare e ciò che deve proteggere, e perché talvolta questo meccanismo fallisce» sottolinea Annunziato. Non è un caso che il Premio Nobel per la Medicina sia stato assegnato quest’anno a un gruppo di immunologi per le scoperte sui linfociti T regolatori, cellule studiate da molti anni e oggi al centro di numerosi trial clinici.

Le cellule T regolatorie svolgono un ruolo chiave nella tolleranza immunologica periferica, controllando le risposte autoimmuni. Tuttavia, si è scoperto che tendono a svilupparsi anche all’interno dei tumori, dove bloccano la risposta immunitaria contro le cellule maligne. «Molti studi clinici mirano oggi a intercettare ed eliminare queste cellule» spiega Annunziato, un approccio simile a quello degli anticorpi monoclonali che inibiscono i checkpoint immunitari, molecole che frenano la risposta immune.

Il sistema immunitario, nato per difendere l’organismo, è dotato di meccanismi di autoregolazione che impediscono risposte eccessive o dannose. Nei tumori, però, accade che i linfociti T cronicamente attivati esprimano molecole inibitorie che li spingono in uno stato di esaurimento funzionale. «È esattamente ciò che osserviamo nel microambiente tumorale» conclude il professore: una risposta che tenta di controllare la crescita del tumore, ma che viene progressivamente bloccata dai meccanismi di inibizione.

Con questa lezione si chiude la seconda puntata del ciclo dedicato alle terapie CAR‑T. La terza puntata sarà pubblicata il 30 dicembre.

Leggi anche: CAR‑T, il futuro è già qui. La prolusione di Alessandro Maria Vannucchi

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