Quando la pelle è in sofferenza, esprime molto più di un semplice disagio estetico. Nel caso dell’HIV, le manifestazioni cutanee sono spesso tra i primi indizi visibili dell’infezione: segnali che, se riconosciuti in tempo, possono trasformarsi in una chiave per una diagnosi precoce e una presa in carico più efficace. A ribadire questo ruolo cruciale sono gli specialisti della Società Italiana di Dermatologia e Malattie Sessualmente Trasmesse (SIDeMaST), in occasione della Special Edition del Congresso Nazionale, a Roma nel contesto del XIV International Congress of Dermatology (18–21 giugno) presieduto da Giovanni Pellacani.
Secondo Maria Concetta Fargnoli, che ha assunto la direzione scientifica dell’IRCCS San Gallicano, “il 90% delle persone con HIV sviluppa almeno una patologia cutanea prima della diagnosi o durante il trattamento”. Una percentuale che fa comprendere il ruolo sentinella della dermatologia, in grado di intercettare l’infezione attraverso manifestazioni insolite o refrattarie della cute.
Tra i campanelli d’allarme possiamo citare eruzioni maculo-papulari atipiche, dermatiti seborroiche estese, herpes zoster recidivanti o diffusi, scabbia resistente alle terapie, candidosi orofaringea cronica, psoriasi gravi o insensibili ai trattamenti, fino alle dermatofitosi estese. Spesso queste affezioni possono essere riconducibili a patologie di natura diversa, ma quando compaiono in forma severa o inspiegabile, meritano sempre un’indagine più approfondita.
I dati dell’Istituto Superiore di Sanità sono eloquenti: 2.349 nuovi casi di HIV nel 2023, con un’incidenza di 4 ogni 100.000 abitanti, in preoccupante risalita rispetto agli anni post-pandemia. Dopo un calo costante tra il 2012 e il 2020, il trend è tornato a crescere dal 2021. Il problema non è solo la diffusione, ma anche la latenza nella diagnosi: secondo l’OMS, il 13% delle persone positive non è in trattamento, aumentando il rischio di trasmissione. La diagnosi precoce è fondamentale non solo per la salute del paziente ma anche per il contenimento dell’infezione nella popolazione. Gli specialisti in dermatologia possono essere i primi a sospettare l’infezione da HIV e avviare un percorso diagnostico. Da qui l’idea lanciata da SIDeMaST al congresso: dare visibilità a una task force di dermatologi venereologi capaci di fare rete con infettivologi e altri specialisti, guidando ricerca, formazione e assistenza integrata.
“Dunque, il dermatologo può essere considerato il primo guardiano – sottolinea Lidia Sacchelli, ricercatrice presso il Policlinico Sant’Orsola Malpighi di Bologna – la prima figura specialistica in grado di cogliere i segni della malattia infettiva, la cui presenza deve essere poi confermata da un’analisi del sangue con test specifici per l’HIV. In un certo senso possiamo parlare giustamente di dermatologi-sentinella, che appena individuano la criticità, possono poi attivare l’intero iter diagnostico-terapeutico”. Ma perché questo ruolo decisamente strategico non è ancora pienamente valorizzato? Secondo la professoressa Fargnoli, interpellata nel corso di un briefing con la stampa, alla vigilia dell’apertura del congresso (foto sotto), uno dei limiti principali è la mancanza di linee guida operative aggiornate, che aiutino gli specialisti a riconoscere in modo sistematico le manifestazioni sospette. “Serve più formazione specifica, più strumenti condivisi e maggiore interdisciplinarità. Ogni giorno che passa senza una diagnosi è un’occasione persa per controllare la malattia e migliorare la prognosi”. Occorre rafforzare il filtro della dermatologia nella diagnosi precoce dell’infezione da HIV. A questo punto il messaggio è lanciato: la pelle manda segnali inequivocabili, occorre saperli cogliere con tempestività e, nei casi selezionati, prendere provvedimenti senza indugi.
