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Giornata Mondiale Aids: la rivoluzione dei farmaci long acting e la profilassi da virus HIV

In Italia, le nuove diagnosi di HIV mostrano un trend in crescita: il picco negativo del 2020, dovuto alla riduzione degli screening per la pandemia, è stato seguito da un incremento costante. Nel 2023 si contano 2.349 nuove diagnosi di infezione da HIV pari a un’incidenza di 4,0 nuove diagnosi per 100.000 residenti. Questo il dato principale diffuso dal Centro Operativo AIDS dell’Istituto Superiore di Sanità, con il contributo di alcuni componenti del Comitato Tecnico Sanitario del Ministero della Salute e i referenti della Direzione Generale della Prevenzione del Ministero della Salute. Tuttavia, il quadro rispetto al passato è profondamente mutato, grazie ai successi della terapia antiretrovirale e della Profilassi Pre-Esposizione (PrEP). Questi alcuni degli spunti emersi alla vigilia della Giornata Mondiale contro l’AIDS, che si celebra oggi, 1° dicembre, in vista del congresso della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, SIMIT, che si terrà dal 2 al 5 dicembre a Napoli.

Nella seconda parte dell’intervista al professor Giovanni Guaraldi, che riportiamo di seguito, affrontiamo nello specifico le tematiche della prevenzione, della ricerca sui farmaci long acting, e le modalità di presa in carico della persona con HIV.

“Le terapie attualmente disponibili – spiega il professor Guaraldi – sono combinazioni di due o più principi attivi. Esistono studi comparativi che analizzano l’efficacia di associazioni di due e tre farmaci. Le attuali linee guida riconoscono come caposaldo la classe degli inibitori dell’integrasi, che possono essere associati a varie altre classi, come i farmaci nucleosidici o gli inibitori delle proteasi. L’obiettivo della terapia antiretrovirale non è più semplicemente quello di uccidere (neutralizzare, ndr) il virus, ma punta a salvaguardare la salute del paziente nella sua complessità. Pertanto, una terapia efficace deve essere orientata verso il benessere complessivo del paziente. In passato, eravamo principalmente preoccupati per le tossicità dei farmaci, e la scelta terapeutica si concentrava nell’evitare la tossicità renale, la tossicità cardiaca o il rischio di dislipidemia. Oggi, piuttosto, ci si aspetta una terapia che consideri l’intero stato di salute del paziente, integrando gli antiretrovirali, a seconda dei casi con statine, con farmaci GLP-1, con antipertensivi o con gli antidepressivi”.

“La relazione che qui descriviamo rappresenta il punto di incontro di un processo condiviso. Non è più una semplice relazione in cui il dottore prescrive e il paziente deve semplicemente obbedire. Con la prescrizione, si richiede anche un adeguamento dello stile di vita da parte della persona in trattamento. Si stabilisce così un contatto molto significativo, una relazione che coinvolge persone che spesso si conoscono da molto tempo, come il medico e il paziente che vive con HIV. Insieme, diventiamo alleati nel migliorare la qualità della vita”.

Quali criteri si impongono oggi nella scelta della terapia?

“Quando valutiamo il beneficio della terapia e il suo impatto sulla salute, cercherò di comprendere quali sono i patient reported outcome, le condizioni che fanno sì che una specifica terapia, per un paziente specifico (non esisterà mai una terapia adatta a tutti), ottenga il miglior successo. Oggi questa condizione è stata analizzata attraverso un approccio mirato, che non solo consente di ridurre il carico farmacologico a una singola compressa, ma soprattutto offre la possibilità di terapie somministrate in modo dilazionato”.

“Attualmente, abbiamo a disposizione terapie long acting, con somministrazione intramuscolare ogni 8 settimane. Ora vediamo che cosa ha comportato questa innovazione. Stiamo parlando di farmaci che avevamo già sotto forma di compresse, essenzialmente appartenenti a classi già disponibili da almeno dieci anni. Tuttavia, l’idea di una somministrazione long acting, in cui il paziente non deve più assumere una compressa quotidianamente, ma riceve un’iniezione ogni 8 settimane, ha completamente trasformato il livello di percezione. Ha cambiato lo stigma associato all’infezione da HIV, percepita dal paziente stesso”.

Come è stata accolta la somministrazione long acting?

“Inizialmente facevo fatica a capire come mai molti dei miei pazienti, che comunque assumono numerosi altri farmaci oltre agli antiretrovirali, nel momento in cui abbiamo offerto loro una terapia long acting intramuscolare, non abbiano esitato e abbiano voluto provarla. Dico di più, ora non vogliono tornare indietro, per nessun motivo.

Come si spiega questo atteggiamento?

“Evidentemente, si tratta di una percezione: quella compressa, tra le quattro, cinque o dieci compresse al giorno che assumo per ipertensione, malattie cardiovascolari, eccetera, era un costante promemoria della malattia da HIV. Credo che questa sia solo una delle tante terapie che in medicina verranno somministrate in modalità long acting. Attualmente, abbiamo la somministrazione ogni otto settimane, ma già sappiamo che nel prossimo futuro avremo terapie long acting orali, con una compressa a settimana, e ultra long acting, che rappresentano il nostro grande obiettivo futuro, in cui potrò gestire la terapia antiretrovirale essenzialmente con un’iniezione ogni sei mesi. Questo rappresenta un cambiamento significativo, che si avvicina a quello che teoricamente mi sarei aspettato da un vaccino terapeutico, nel quale avrei sicuramente dovuto effettuare anche dei booster vaccinali; questo non è così lontano. Spostiamoci ora dalla terapia alla prevenzione”.

Cambiamo adesso prospettiva e parliamo di profilassi. I progressi nella terapia si dice che abbiano cambiato anche i modelli di prevenzione dell’infezione, a che punto siamo?

“In Italia, da questo punto di vista, siamo un po’ un fanalino di coda rispetto al resto dell’Europa: è soltanto da un anno che il nostro sistema sanitario ha riconosciuto la profilassi pre-esposizione (PrEP) come strumento di sanità pubblica per la prevenzione delle infezioni da HIV. È importante chiarire che le strategie di prevenzione dell’HIV non vanno in una unica direzione, ma offrono un ventaglio di possibilità per consentire a ogni persona di tutelarsi, soprattutto nel contesto delle malattie a trasmissione sessuale, essendo l’HIV una malattia principalmente di questo tipo”.

“Noi sappiamo di avere a disposizione una terapia antiretrovirale, una combinazione di soli due farmaci, in grado virtualmente di azzerare il rischio di infezione per le persone che, pur avendo avuto comportamenti sessuali a rischio, non si infettano se assumono questa terapia in modo continuativo, con una compressa ogni giorno, oppure nella modalità on demand, ossia solo in occasione di un comportamento sessuale a rischio. Questa terapia è uno degli strumenti di prevenzione basilari. Ricordiamo che il condom è un altro strumento efficace di prevenzione, così come gli stili di vita rientrano nella prevenzione. Tuttavia, è fondamentale sottolineare che non abbiamo mai avuto a disposizione uno strumento di prevenzione così efficace come quello attuale”.

Cosa bolle in pentola, quali soluzioni ci offrirà l’industria farmaceutica nell’immediato futuro?

“Si vedono già cambiamenti importanti all’orizzonte: sarà presto autorizzata in Europa la PrEP long acting. Questo significa che potremo prevenire l’infezione da HIV attraverso una iniezione, il primo long acting prevede una somministrazione ogni otto settimane. Abbiamo poi un dato dirompente, rappresentato dalla pubblicazione sul New England Journal of Medicine del luglio scorso, riguardante l’efficacia del trattamento con Lenacapavir. Questo farmaco, primo esponente di una nuova classe di inibitori, somministrato ogni sei mesi, ha evidenziato un 100% di successo nella popolazione più marginalizzata, come adolescenti e donne in Africa, in condizioni di estrema difficoltà di accesso alle cure, rispetto alla PrEP orale”.

“Posso assicurare che, quando abbiamo sentito questa comunicazione al congresso IAS (International AIDS Society 2024) non esagero: a molti di noi sono scese le lacrime. Da quarant’anni aspettavamo l’idea che esistesse la possibilità di azzerare la trasmissione dell’HIV attraverso un farmaco. Questa è una scoperta straordinaria, che ci riempie anche di responsabilità. Venti anni fa ci interrogavamo sulla possibilità di trovare soluzioni nei paesi con maggiori necessità, essenzialmente nel Sud del mondo, oggi dobbiamo ancora di più chiederci come possiamo garantire che, avendo a disposizione uno strumento che può essere facilmente integrato nella sanità pubblica, stiamo parlando di due iniezioni all’anno, possiamo realmente azzerare il rischio di trasmissione dell’HIV, in particolare nei paesi dove c’è maggiore bisogno di questa precauzione”.

Veniamo ora alla presa in carico del paziente, quale la vostra esperienza nella pratica clinica e in reparto?

“Abbiamo parlato di farmaci, d’accordo, ma in realtà la presa in carico della persona con infezione da HIV non prevede semplicemente la somministrazione dei farmaci; richiede un modello di cura diverso. Questo modello deve essere “patient-centered”, con il paziente al centro. Su questo aspetto devo dire che c’è ancora tanta strada da fare. Vorrei però citare la nostra esperienza, che è quella della Clinica Metabolica HIV di Modena, dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Policlinico, diretta da Cristina Mussini, che è per tanti versi pionieristica in questo tipo di approccio”.

“La clinica è nata oltre vent’anni fa e inizialmente si preoccupava delle tossicità dei farmaci antiretrovirali. Col passare del tempo, però, ha cercato di ascoltare i bisogni, e oggi si occupa della salute delle persone con infezione da HIV, le persone che invecchiano con il virus, e per questo andiamo a studiare i modelli di invecchiamento. Abbiamo a disposizione strumenti validissimi, poiché anche su questo c’è un cambiamento epocale. Quest’anno, infatti, le tre grandi linee guida internazionali, comprese quelle della Società Europea, hanno sostanzialmente modificato l’approccio. Ci viene detto che, oltre alla terapia antiretrovirale, o meglio, insieme ad essa, dobbiamo considerare un approccio immunologico e immuno-metabolico”.

“Di fronte ai risultati di uno studio che ha fatto storia, pubblicato l’anno scorso, emerge che la terapia con statine, inizialmente concepita per ridurre il livello di colesterolo, ha un beneficio clinico evidente: riduce il numero degli eventi cardiovascolari, che sono la prima causa di morte in corso di infezione da HIV. Le statine potrebbero anche avere un effetto protettivo leggero, riducendo lo stato di infiammazione cronica, che fa sì che l’invecchiamento delle persone con HIV avvenga in modo diverso”.

“Nella Clinica Metabolica di Modena cerchiamo di perseguire questo approccio patient-centered, descrivendo un percorso multidisciplinare che coinvolge cardiologi, nefrologi e specialisti di altre discipline. Adottiamo un approccio multidimensionale, in grado di raccogliere i bisogni delle persone, anche attraverso tecnologie adeguate, prima di approdare alla clinica”.

“Questo cambia il modello di cura: il paziente è al centro, non il virus. La terapia non è solo una somministrazione di farmaci, ma un intervento globale che cerca di gestire ogni aspetto della vita del paziente, compresa la terapia antiretrovirale, per migliorare la qualità della vita. Questo è il nuovo approccio”.

In conclusione, oggi sappiamo che l’infezione da HIV si può e si deve prevenire sempre, questo è possibile attraverso i nostri comportamenti e anche farmacologicamente. È fondamentale conoscere il proprio stato di salute, ed è opportuno che tutte le persone sessualmente attive accedano periodicamente al test. Piuttosto è inconcepibile che due terzi delle nuove diagnosi di infezione da HIV in Italia debbano arrivare alla nostra osservazione in una condizione di avanzato danno immunologico. Sottoporsi ai test e diffondere i test comporta un vantaggio personale e di comunità. Dobbiamo destigmatizzare il test e la malattia. L’infezione è cronicizzabile e trattabile, dobbiamo però eliminare il pregiudizio. Pensiamo, ad esempio, allo stigma legato all’età avanzata, il cosiddetto ageismo. Rimuoviamo allora tutte le barriere, e assicuriamoci che le persone che vivono con HIV abbiano completo accesso a una condizione di benessere.

(torna all’inizio)

>> Link alla prima parte dell’intervista al professor Giovanni Guaraldi <<

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