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Medici di famiglia dipendenti del Ssn? “No, grazie!”

Il Ministero della Salute e alcune Regioni ha in fase “di studio” una riforma che ha come obiettivo la trasformazione dei medici di famiglia in dipendenti del Servizio sanitario nazionale, ponendo fine, progressivamente, al modello attuale di liberi professionisti convenzionati. Questa trasformazione prevede che i medici vengano trasferiti nelle case della comunità (oltre 1.400 apriranno in tutta Italia entro metà del 2026 grazie ai fondi del Pnrr) e in altre strutture sanitarie territoriali, come gli ospedali di comunità e i distretti. Abbiamo sentito i medici di famiglia che ci hanno spiegato le loro perplessità e le preoccupazioni.

La riforma prevederebbe anche che chi esercita già come libero professionista convenzionato potrebbe scegliere se passare al nuovo sistema di dipendenza o se continuare a mantenere il proprio studio privato, ma offrire 18 ore settimanali al distretto, sottratte alla normale attività ambulatoriale.

Daniele Morini, segretario generale regionale della Federazione italiana dei medici di medicina generale (FIMMG) dell’Emilia-Romagna, che da sempre si batte per una professione che risponda sempre di più alle esigenze di assistenza e di cura degli assistiti e per migliorare la professione stessa, sulla riforma che potrebbe trasformare i medici di famiglia in dipendenti del Ssn, ha sollevato perplessità e nutre delle preoccupazioni.

Daniele Morini, segretario generale regionale della Federazione italiana medici di medicina generale (FIMMG) dell’Emilia-Romagna

Il primo punto riguarda la natura stessa delle case di comunità. Secondo Morini “sono per la maggior parte soltanto progettate o in costruzione, non vedranno la luce prima di 1-2 anni, mentre quelle esistenti al momento soffrono di carenza di personale medico”. Con questa riforma, ne è convinto il segretario regionale, “si cercherebbe di evitare che le case di comunità restino scatole vuote o cattedrali nel deserto”.

E poi c’è il tema del rapporto fiduciario medico-paziente e della prossimità. “Abbiamo la certezza che diventando dipendenti di queste strutture, il rapporto di fiducia tra medico e paziente si vada perdendo fino a non esistere più. I nostri assistiti finirebbero ad essere costretti a rivolgersi a chi è di turno in quel momento e quindi a dottori sconosciuti, e perché no magari passando attraverso un cup per la prenotazione come per le visite in ospedale. Senza contare il valore della prossimità e della capillarità che verranno a mancare”.

Sulle ulteriori ore settimanali sottratte alla normale attività ambulatoriale, Morini si domanda: “Come farà un medico massimalista, che mediamente non fa mai meno di 50 ore settimanali, a fare ulteriori 18 ore alla para-dipendenza delle Ausl? Sicuramente sottraendo tempo clinico all’assistenza dei propri pazienti. Voglio ricordare che la medicina generale ha già un accordo collettivo nazionale (ACN) recentemente siglato che prevede, mantenendo il ruolo di medico convenzionato, una quota oraria che i medici con poche scelte devono fare sul territorio, all’interno delle aggregazioni funzionali territoriali (AFT), fino a ben 38 ore settimanali in caso di medici con poche scelte (fino a 400) e gradualmente meno ore, mano mano che aumentano gli assistiti”.

“Le ore per dare una mano nelle case di comunità sono già ben codificate nell’ACN, senza bisogno di andare a scomodare un contratto collettivo nazionale scavalcandolo con un decreto legge che risulterebbe alquanto impopolare non solo fra i medici (che verosimilmente si troverebbero a scioperare a oltranza) ma soprattuto a discapito degli assistiti, poiché questo costituirebbe la fine del servizio sanitario nazionale territoriale come lo conosciamo da 40 anni”.

E poi c’è il fattore economico. “Il costo della medicina territoriale con medici dipendenti invece che convenzionati, sarebbe addirittura triplicato, e sono dati non inventati da noi ma calcolati dal Dipartimento di economia e finanza” sottolinea Daniele Morini.

Di fronte al timore di essere di fronte, come spiega Morini, “ad una manovra in favore di una sanità privata”, anche il sindacato nazionale autonomo dei medici italiani (SNAMI) Emilia-Romagna fa sentire la sua voce, bocciando l’idea dell’assunzione dei medici di famiglia da parte delle aziende sanitarie come rinforzi per le case di comunità, invitando le istituzioni a riconsiderare questa scelta e avviando un confronto serio con i professionisti del settore per individuare soluzioni concrete e sostenibili che rispondano davvero ai bisogni del sistema nel suo complesso.

Per il sindacato, è fondamentale riscrivere la figura del medico di famiglia come pilastro centrale del sistema, “puntando su investimenti mirati, strumenti innovativi e una maggiore integrazione tra i diversi livelli di assistenza, senza compromettere l’efficacia del servizio offerto”.

“Volere trasformare i medici di base in dipendenti delle case di comunità significa snaturare la loro funzione primaria e il loro ruolo di garanzia autonoma, libera da ingerenze. Le case di comunità sono l’esatto contrario rispetto l’odierna capillarità degli studi, rischiano di diventare poliambulatoriali sovraccarichi e impersonali, forse capaci di erogare prestazioni in una logica industriale più che aziendale, ma incapaci di rispondere efficacemente alle esigenze di relazione e di vincolo fiduciario coi cittadini” commenta il sindacato.

“La soluzione non è assorbire i medici di famiglia nel sistema pubblico come lavoratori subordinati, ma aggiornare le regole convenzionali, potenziando funzioni e competenze attribuite, a partire dal percorso formativo, negoziando regole aggiornate per contestabilità del curante e standard di accreditamento delle prestazioni da erogare, in una logica di programmazione vera. Semplificare i processi amministrativi e garantire risorse adeguate a svolgere al meglio il loro ruolo: questo manca in qualunque proposta, dal Governo centrale in giù” ha concluso SNAMI Emilia-Romagna.

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