Uno studio internazionale dimostra che la risonanza biparametrica può sostituire l’indagine multiparametrica con mezzo di contrasto, riducendo rischi e costi senza perdere in accuratezza
La risonanza magnetica multiparametrica (mpMRI) della prostata rappresenta oggi uno degli strumenti più avanzati e affidabili per la diagnosi precoce del tumore prostatico. Questo esame, che combina diverse sequenze di imaging per analizzare la morfologia e la funzionalità del tessuto prostatico, ha rivoluzionato il modo in cui si identificano le lesioni sospette e si pianificano le biopsie mirate. In particolare, la mpMRI consente di distinguere tra tumori clinicamente significativi e forme indolenti, evitando interventi inutili, biopsie alla cieca, e migliorando la qualità della cura.
Tradizionalmente, la risonanza multiparametrica prevede l’utilizzo di un mezzo di contrasto endovenoso, solitamente a base di gadolinio, che permette di evidenziare la vascolarizzazione delle lesioni. Tuttavia, l’impiego del mezzo di contrasto comporta alcune criticità: tempi più lunghi, costi maggiori, e soprattutto il rischio di reazioni avverse, seppur rare, nei pazienti con insufficienza renale o allergie. Da qui nasce l’interesse crescente per la cosiddetta risonanza biparametrica (bpMRI), che esclude la fase dinamica con contrasto e si basa solo su sequenze T2 e diffusione.
La domanda cruciale è: può la bpMRI garantire la stessa efficacia diagnostica della mpMRI tradizionale? A questa domanda ha risposto lo studio internazionale PRIME (Prostate Imaging Using MRI Evaluation), coordinato dallo University College London e appena pubblicato su JAMA. I risultati sono promettenti e aprono scenari nuovi per la diagnostica urologica.
Lo studio ha coinvolto numerosi centri europei, tra cui l’Università di Udine e l’Ospedale S. Maria della Misericordia dell’Azienda sanitaria universitaria Friuli Centrale. Il ramo italiano dello studio è stato guidato da Rossano Girometti, radiologo e professore di diagnostica per immagini e radioterapia dell’Ateneo friulano, e da Gianluca Giannarini, specialista della SOC Urologia, entrambi docenti universitari del Dipartimento di Medicina. Alla ricerca ha collaborato anche la Struttura Operativa Complessa di Anatomia Patologica.
Secondo quanto riportato dall’ateneo di Udine, la risonanza biparametrica rappresenta una svolta potenzialmente decisiva: “Permette di ridurre tempi e costi dell’esame, abbattere i rischi per i pazienti e renderne l’accesso più semplice e diffuso, senza compromettere l’accuratezza diagnostica quando eseguita in centri adeguatamente qualificati”.
Il professor Girometti commenta con favore i risultati dello studio: “vorrei segnalare la solidità dei dati raccolti dal gruppo multidisciplinare locale dedicato alla diagnosi e cura del tumore prostatico, che comprende urologi, oncologi, radiologi, anatomopatologi, radioterapisti e medici nucleari. Il team di Udine si conferma così all’avanguardia nella gestione della patologia prostatica a livello internazionale”.
La possibilità di eseguire risonanze senza mezzo di contrasto, mantenendo elevati standard diagnostici, potrebbe avere un riflesso significativo sulla tempistica. In particolare, si prospetta una maggiore accessibilità all’esame per fasce di popolazione finora escluse, una riduzione dei tempi di attesa e una razionalizzazione delle risorse. Inoltre, la semplificazione della procedura potrebbe favorire l’adozione della risonanza magnetica come strumento di screening in soggetti a rischio, anticipando la diagnosi e migliorando la prognosi.. La sfida ora è garantire che la qualità dell’esame biparametrico sia mantenuta in tutti i contesti clinici, attraverso formazione, protocolli condivisi e investimenti tecnologici. In questo scenario, l’esperienza del team friulano rappresenta un modello virtuoso di collaborazione tra ricerca, clinica e territorio.
Tumore della prostata, in Italia 485mila casi in trattamento
In Italia, oltre 485mila uomini convivono con una diagnosi di tumore della prostata. Un numero che racconta una realtà silenziosa ma imponente, quella di una neoplasia che, pur vantando tassi di sopravvivenza superiori al 90% a cinque anni, continua a rappresentare una delle principali minacce per la salute maschile. Il carcinoma prostatico è oggi il tumore più frequente tra gli uomini e, secondo le stime, i casi cresceranno dell’1% ogni anno fino al 2040. Un trend che impone una riflessione sul ruolo della prevenzione, della diagnosi precoce e delle strategie terapeutiche.
A tracciare il quadro è il numero uno della Fondazione Aiom (Associazione italiana di oncologia medica), che in una recente conferenza stampa online ha puntato i riflettori sull’urgenza di rafforzare gli strumenti di prevenzione e informazione. “Quello prostatico è divenuto in Italia il carcinoma più frequente tra i maschi”, ha dichiarato Saverio Cinieri, presidente della Fondazione Aiom. “Vi sono fattori modificabili che favoriscono l’insorgenza, soprattutto legati a stili di vita errati”.
Tra i principali fattori di rischio emergono il fumo e l’obesità, due abitudini diffuse che incidono rispettivamente sul 27% e sull’11% degli uomini adulti. “Il tabagismo aumenta del 20% il rischio di tumore della prostata”, ha spiegato Cinieri, “così come l’obesità favorisce neoplasie più aggressive e talvolta letali. Viceversa, l’attività fisica riduce progressione e mortalità”. Un messaggio chiaro, che ribadisce quanto la prevenzione primaria – quella che agisce prima dell’insorgenza della malattia – sia un’arma potente e ancora troppo sottovalutata.
Il tumore della prostata, però, ha una caratteristica che lo rende particolarmente insidioso: nelle fasi iniziali non dà sintomi. Questo rende difficile la diagnosi precoce, che spesso arriva solo quando la malattia è già in fase avanzata. “Con il progredire della malattia possono comparire segnali come ridotta potenza del getto urinario, ematuria o dolore”, ha sottolineato Marco Maruzzo, Istituto oncologico veneto. “I trattamenti disponibili vanno dalla sorveglianza attiva alla chirurgia, radioterapia e terapie ormonali di nuova generazione, anche associate a chemioterapia”.
Negli ultimi anni, la ricerca ha aperto nuovi fronti anche sul piano genetico. Circa il 10% dei casi di tumore prostatico ha una base eredo-familiare, e questo ha spinto gli oncologi a investire nei test genetici mirati. “Attraverso test mirati identifichiamo varianti patogenetiche, come quelle dei geni Brca, per avviare percorsi di monitoraggio o cura”, ha spiegato Nicola Silvestris, segretario nazionale Aiom. Un approccio che consente di intervenire in modo più tempestivo e personalizzato, soprattutto nei soggetti a rischio.
Per sensibilizzare la popolazione, Fondazione Aiom ha partecipato al “Tour Mediterraneo” della nave Amerigo Vespucci, un’iniziativa itinerante che ha coinvolto anche Fondazione Airc e la Società italiana di radiologia medica e interventistica (Sirm). “Un’iniziativa che rappresenta un passo concreto nel nostro impegno al fianco delle persone con tumore alla prostata”, ha sottolineato Arianna Gregis, Head Pharmaceuticals di Bayer Italia, partner del progetto. “La prevenzione in Italia deve essere incentivata anche attraverso campagne di sensibilizzazione mirate”.
Il messaggio che emerge è lampante: il tumore della prostata non è solo una questione da affrontare sotto il profilo clinico, entrano in gioco anche considerazioni di carattere sociale e culturale. Serve un cambio di paradigma, che metta al centro la salute maschile con strumenti di informazione, diagnosi e cura sempre più efficaci. Perché dietro ogni numero c’è una storia, e dietro ogni storia c’è la possibilità di fare la differenza.





