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Batteri intestinali e farmaci: interazioni inaspettate compromettono l’efficacia dei trattamenti

Un nuovo studio rivela come il microbioma possa degradare o alterare farmaci diretti a specifici recettori

Un gruppo di ricerca della University of Pittsburgh e di Yale ha individuato un potenziale meccanismo attraverso cui i batteri intestinali possono ridurre l’efficacia di numerosi farmaci orali mirati ai recettori accoppiati a proteine G (GPCR). La scoperta, pubblicata su Nature Chemistry, offre spunti rilevanti per la medicina personalizzata e per comprendere la variabilità di risposta ai trattamenti in diversi pazienti.

I recettori GPCR costituiscono una delle classi più utilizzate nella terapia farmacologica: oltre 400 farmaci approvati dalla Food and Drug Administration (FDA) negli Stati Uniti agiscono su questi recettori. Tali molecole risultano fondamentali nella gestione di patologie come emicrania, disturbi depressivi, diabete di tipo 2 e alcuni tipi di cancro.

Nonostante la consolidata utilità clinica dei farmaci diretti ai GPCR, la risposta terapeutica può variare notevolmente da persona a persona. Se in passato l’attenzione si è focalizzata su fattori genetici, ambientali e dietetici, la ricerca recente evidenzia l’importanza del microbioma intestinale, un insieme complesso di microrganismi presenti nell’intestino, capace di interferire con la degradazione, la biodisponibilità e la trasformazione dei farmaci.

Il primo firmatario, Qihao Wu, professore associato alla School of Pharmacy dell’Università di Pittsburgh, insieme a colleghi di Yale, ha analizzato la relazione tra farmaci e batteri intestinali attraverso una comunità batterica sintetica composta da 30 ceppi comuni nel microbiota umano. Ogni coltura è stata esposta a uno dei 127 farmaci noti per agire su recettori GPCR, al fine di osservare possibili modificazioni chimiche.

I risultati hanno mostrato che 30 farmaci venivano alterati dagli organismi batterici, e 12 subivano una trasformazione significativa con riduzione della concentrazione originale. Un esempio emblematico è l’iloperidone, un antipsicotico utilizzato nel trattamento della schizofrenia e del disturbo bipolare. I ricercatori hanno rilevato che il batterio Morganella morganii converte l’iloperidone in vari metaboliti inattivi, sia in vitro sia in modelli animali, suggerendo come il microbiota possa compromettere l’efficacia del farmaco.

Lo studio evidenzia che i batteri intestinali rappresentano un ulteriore fattore nell’eterogeneità di risposta farmacologica. Gli autori avvertono, tuttavia, che non esiste al momento la conferma diretta negli esseri umani, poiché i test clinici mirati mancano di dati conclusivi. Ciò non toglie che, in linea teorica, un paziente con un microbiota particolare potrebbe metabolizzare in modo eccessivo determinati farmaci, riducendone la concentrazione efficace e ostacolandone l’azione terapeutica.

Jonathan Herington, coautore e docente di filosofia e bioetica, sottolinea la necessità di ampliare lo spettro di analisi. Se i dati per l’addestramento dei modelli farmacogenomici non tengono adeguatamente conto di come la flora batterica interferisce con i farmaci, vi è il rischio di creare protocolli terapeutici incompleti e non rappresentativi di tutte le popolazioni.

I recettori GPCR costituiscono bersagli essenziali in medicina, regolando processi quali la percezione del dolore, il controllo glicemico, la pressione arteriosa e la funzione immunitaria. La scoperta che i batteri intestinali possono modificare l’efficacia di alcuni farmaci suggerisce che, per rendere le cure più personalizzate, non basta considerare solo la genetica del paziente: anche la composizione del suo microbiota intestinale potrebbe essere fondamentale.

Negli ultimi anni, sono emersi studi che esplorano modifiche del microbiota per migliorare l’assorbimento di farmaci, suggerendo strategie come la modulazione della dieta o l’assunzione di probiotici per ottimizzare la risposta terapeutica. Questo approccio potrebbe dimostrarsi rilevante anche nella prevenzione della resistenza ai farmaci, soprattutto nei regimi di cura a lungo termine.

La ricerca, sviluppata nei laboratori di Jason Crawford, Noah Palm e Andrew Goodman a Yale, delinea un metodo sperimentale replicabile anche per altri farmaci orali o sostanze di origine alimentare. Il professor Wu segnala che lo stesso schema di analisi è stato utilizzato per valutare come certi batteri intestinali detossifichino sostanze fitochimiche nel mais, con implicazioni su allergie o intolleranze.

In ambito clinico, l’esame del microbiota del singolo paziente prima di definire la terapia potrebbe diventare una prassi, con l’obiettivo di prevedere o ridurre le interazioni potenzialmente sfavorevoli. Tuttavia, serviranno studi mirati per determinare se un intervento sul microbioma – ad esempio tramite antibiotici, probiotici o trapianto di microbiota fecale – possa effettivamente migliorare gli esiti terapeutici o se semplicemente introduca variabili aggiuntive.

Il lavoro condotto dalle università di Pittsburgh e Yale, pubblicato su Nature Chemistry, fornisce nuove informazioni sulla complessità della farmacodinamica, mostrando che batteri comuni nel tratto intestinale sono capaci di degradare specifici farmaci mirati ai recettori GPCR, abbassandone l’efficacia. Questo fenomeno spiega ulteriormente la variabilità tra pazienti e suggerisce nuovi approcci terapeutici più personalizzati, basati anche sulla composizione del microbiota.

Gli autori sottolineano la necessità di future ricerche cliniche per confermare tali interazioni nell’essere umano e definire soluzioni in grado di contrastare la degradazione dei farmaci da parte dei batteri. Con il progressivo avanzamento della medicina di precisione, l’integrazione di genetica, microbiologia e farmacologia potrebbe consentire di ottimizzare le terapie, massimizzando l’efficacia dei farmaci e minimizzando gli effetti collaterali legati alle variazioni del microbiota intestinale.

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