“Na tazzulella ‘e café”, così nel 1977 Pino Daniele celebrava quella che è tra le bevande più diffuse al mondo. C’è chi non lo beve dopo le 16, c’è chi invece lo prende poco prima di andare a letto. Negli anni la scienza medica ha stabilito che un consumo moderato per un adulto sano, pari a tre tazzine al giorno (attenzione, quello della moka di casa contiene più caffeina di quello del bar) può fare bene al cuore grazie al contenuto di polifenoli e antiossidanti.
“La tazzina di caffè è sconsigliata a chi soffre di aritmie cardiache ed in particolare di fibrillazione atriale – avverte Domenico Miceli cardiologo di lungo corso, esperto in riabilitazione cardiologica già dirigente medico del Monaldi e socio Amco – specie se ricorrente e incontrollabile con i farmaci così da indicare in casi selezionati il ricorso all’ablazione. Ma è di questi giorni la notizia, diffusa al convegno dell’American Heart Association, tra i più prestigiosi raduni annuali di cardiologi del mondo, che alcuni componenti della squisita bevanda possano addirittura proteggere il cuore dalle recidive di fibrillazione atriale. Come sempre gli Autori della ricerca concludono che saranno necessari ulteriori approfondimenti, ma sembra aprirsi uno spiraglio”
Non sarebbe la prima volta che in medicina, nel tempo, le nuove conoscenze ribaltano le nostre convinzioni. “Un esempio per tutti – continua Miceli – : fino agli anni ’60 l’imperativo categorico per i pazienti con infarto acuto era ”non ti muovere”, mentre oggi si sa che la mobilizzazione precoce è parte fondamentale della cura”.
LA VISIONE BIKINI
Intanto le malattie cardiache sono la principale causa di morte nei due sessi, ma la donna è stata e viene tuttora vista come suscettibile di ammalare di patologie della mammella o dell’apparato genitale, quasi dimenticando che anche le donne hanno un cuore.
E poiché dopo la menopausa il rischio di ammalarsi di cuore tra uomo e donna è pari, la scienza si sforza di studiare nuove possibilità diagnostiche in tema di prevenzione.
“Theo Dapamede, ricercatore della Emory University di Atlanta, al convegno dell’American Colege of Cardiology tenutosi qualche mese fa – ci rivela il nostro esperto – ha prospettato la possibilità di analizzare, con l’aiuto dell’intelligenza artificiale, i referti delle mammografie per quantificare i vasi calcificati nelle immagini radiologiche – che appaiono come pixel luminosi – e calcolare il rischio futuro di eventi cardiovascolari.
I risultati hanno mostrato che le donne con il più alto livello di calcificazione arteriosa mammaria avevano un tasso significativamente inferiore di sopravvivenza a cinque anni rispetto a quelle con il livello più basso.
Il modello di intelligenza artificiale è stato sviluppato in collaborazione tra Emory Healthcare e Mayo Clinic e non è attualmente disponibile per l’uso clinico. Se otterrà l’approvazione dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti e successivamente dell’ente regolatorio europeo, potrebbe essere incorporato nell’elaborazione di routine delle mammografie e nell’assistenza di follow-up. I ricercatori prevedono anche di esplorare come modelli di intelligenza artificiale simili potrebbero essere utilizzati per valutare i biomarcatori per altre condizioni, come la malattia arteriosa periferica e la malattia renale, ed anche questi potrebbero essere estratti dalle mammografie”.
Un passo in avanti dunque per porre l’accento sulla necessità, al pari della popolazione maschile, degli strumenti di prevenzione cardiovascolare nel sesso femminile e superare il preconcetto che concentra l’attenzione in prevalenza sulle patologie della mammella e dell’apparato genitale delle donne, ovvero la cosiddetta “visione bikini”.





