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Demenza vascolare e Alzheimer, individuata una molecola che attenua il danno ischemico

Una ricerca dell’Università del Vermont ha approfondito un meccanismo che regola il flusso sanguigno cerebrale e suggerisce una strategia alternativa per contrastare il decadimento cognitivo



La demenza rappresenta una delle principali sfide della geriatria e della medicina moderna. A differenza della malattia di Alzheimer, che implica un danno neurologico ancora in buona parte incomprensibile, la demenza di natura vascolare depone per un’alterazione del flusso sanguigno cerebrale, fenomeni che, con l’invecchiamento della popolazione, assumono proporzioni sempre più rilevanti, anche nelle persone con livelli di colesterolo nella norma e in trattamento con antipertensivi. Nonostante i progressi nella comprensione dei meccanismi neurodegenerativi, le opzioni terapeutiche restano limitate e spesso incapaci di modificare in modo significativo il decorso della malattia. In questo scenario, ogni nuova scoperta potrebbe aprire la strada a interventi mirati in grado di rallentare o prevenire il deterioramento mentale. È proprio in questa direzione che si colloca uno studio preclinico condotto dagli scienziati del Robert Larner College of Medicine dell’Università del Vermont, pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences. La ricerca ha individuato un possibile bersaglio terapeutico legato a un fosfolipide presente nelle membrane cellulari, il PIP2 (fosfatidilinositolo 4,5‑bisfosfato), la cui carenza entra in gioco in modo diretto nei deficit circolatori tipici della demenza di natura vascolare. Si tratta di un componente specifico della famiglia dei fosfoinositoli, ha un ruolo fondamentale nella trasduzione del segnale, nel traffico di membrana e nella regolazione del citoscheletro.

Demenza vascolare e Alzheimer: due strade diverse, un destino simile
La demenza vascolare e la malattia di Alzheimer condividono un impatto clinico drammatico. Pur avendo origini fisiopatologiche differenti — ischemia e danno vascolare nel primo caso, accumulo di amiloide nel secondo — entrambe conducono a un progressivo declino cognitivo: perdita di memoria, difficoltà nelle attività quotidiane, aprassia, depressione, riduzione dell’autonomia. Oggi come oggi colpiscono complessivamente circa 50 milioni di persone nel mondo, un numero destinato a crescere con l’aumento dell’aspettativa di vita. Sappiamo bene che il peso emotivo ed economico sulle famiglie e sui sistemi sanitari è enorme. Per questo la comunità scientifica sta cercando di comprendere come fattori metabolici, infiammatori, alterazioni dei segnali neuronali e danni alle cellule cerebrali contribuiscano alla progressione della malattia.

Un sensore meccanico che regola il flusso sanguigno cerebrale
Nel laboratorio americano, i ricercatori hanno concentrato l’attenzione su un elemento chiave della fisiologia vascolare cerebrale: Piezo1, una proteina presente nelle membrane delle cellule endoteliali che rivestono i vasi sanguigni. Piezo1 agisce come un sensore delle forze fisiche generate dal flusso sanguigno, modulando il lume dei vasi in risposta alla pressione del sangue. Studi precedenti avevano già suggerito che varianti genetiche possono alterare l’attività di Piezo1. Il nuovo lavoro ha approfondito questa dinamica, mostrando che nelle demenze vascolari si osserva un’attività eccessiva della proteina, una sorta di “ipersensibilità” che contribuisce a perturbare la circolazione cerebrale.

PIP2: il fosfolipide che funziona da freno naturale
Il passo successivo è stato analizzare il ruolo di PIP2, un fosfolipide ben noto, fondamentale per la regolazione dei canali ionici. Gli scienziati hanno visto che PIP2 agisce come un freno naturale sull’attività di Piezo1: quando i livelli di PIP2 sono adeguati, la proteina mantiene un comportamento fisiologico; quando invece il fosfolipide diminuisce, Piezo1 perde i freni inibitori, alterando il flusso sanguigno nei capillari cerebrali. La carenza di PIP2, dunque, sembra essere un elemento scatenante nella catena di eventi che porta alla compromissione della circolazione cerebrale nelle demenze vascolari.

Ripristinare PIP2 per normalizzare il flusso sanguigno
La parte più innovativa dello studio riguarda gli esperimenti preclinici: reintegrando i livelli di PIP2 nei modelli animali, i ricercatori hanno osservato una riduzione dell’attività di Piezo1 e un ritorno alla normalità del flusso sanguigno cerebrale. Non solo: i sintomi legati alla demenza vascolare si sono attenuati, tanto da suggerire un potenziale beneficio funzionale. Si tratta di un risultato preliminare, ma promettente. Se confermato da studi clinici futuri, potrebbe portare allo sviluppo di un farmaco capace di ripristinare la circolazione cerebrale e rallentare i processi patologici che conducono al decadimento cognitivo. «Questa scoperta rappresenta per noi un passo avanti negli sforzi per arrivare a prevenire la demenza e le malattie neurovascolari in genere», ha scritto il ricercatore principale Osama Harraz, professore di farmacologia all’Università del Vermont. «Stiamo svelando i meccanismi complessi di queste condizioni devastanti, e ora possiamo iniziare a pensare a come trasferire queste osservazioni nella clinica attraverso la terapia farmacologica».

Perché questa scoperta è importante
La ricerca apre una prospettiva terapeutica relativamente inedita. Intervenire sui livelli di PIP2 potrebbe rappresentare un modo per agire direttamente sui meccanismi endoteliali che regolano il flusso sanguigno cerebrale, offrendo un approccio mirato e potenzialmente efficace per contrastare la demenza vascolare, quella che anticamente si definiva volgarmente arteriosclerosi. In un campo in cui le opzioni terapeutiche sono ancora limitate, individuare un bersaglio molecolare così specifico rappresenta un passo avanti significativo. E, come sottolineano i ricercatori, potrebbe essere l’inizio di un percorso che porta dalla comprensione dei meccanismi biologici alla creazione di terapie concrete. È ancora presto per parlare di un trattamento somministrabile al paziente, ma la strada tracciata dagli scienziati dell’Università del Vermont è chiara: comprendere i meccanismi alla base del decadimento cognitivo è il primo passo per costruire interventi capaci di cambiare il destino dei pazienti.

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