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Donazione di seme con mutazioni genetiche ma la Pma è una procedura sicura

Un donatore di spermatozoi con una mutazione genetica nel gene TP53 ha contribuito alla nascita di almeno 197 bambini in 14 paesi, dopo che il suo seme è stato utilizzato da 67 cliniche della fertilità. La mutazione, nota come sindrome di Li Fraumeni, aumenta drasticamente il rischio di sviluppare tumori, specialmente durante l’infanzia o nella fase più avanzata della vita, fino al 90%.

La Banca europea del seme, con sede in Danimarca, ha dichiarato di aver immediatamente bloccato il donatore una volta scoperto il problema. Tuttavia, i bambini nati con lo sperma del donatore sono già stati esposti a questo rischio genetico.
Alcuni dei bambini hanno già sviluppato tumori, e alcuni sono già morti in tenera età. La professoressa Edwige Kasper, genetista oncologica, ha espresso preoccupazione per la situazione, sottolineando che solo una minoranza dei bambini che hanno ereditato la mutazione non svilupperà un tumore nel corso della loro vita.
Il professor Giovanni Baldini docente di Biodititto all’Università Siena nonchè
Direttore della Fondazione PMA Italia avverte: “Laddove la notizia venisse confermata pone seri problemi anche legali. In particolare va tenuto conto della normativa Europea e nazionale in materia. Il numero massimo di parti da medesimo donatore è di 6 in Francia e Spagna, 12 in Danimarca, 15 Germania, 10 in Italia.cio per evidenti ragioni legate al rischio di consanguineità tra i nati posto che la donazione è anonima. Gli esami da effettuare sul donatore ai sensi di una rigorosa disciplina Europea recepita dai singoli stati riguardano esami infettivi e virologici, esami genetici esami generali. Inoltre sono pure previsti esami anasmestici e psicologici e indagini sulla presenza di malattie genetiche nei familiari prossimi. Non si tratta dunque di esami su tutto il cariotipo ma su specifiche malattie a incidenza rilevante cui possono essere aggiunte altre indipendenza della diffusione nel singolo stato”. L’individuazione di eventuali mutazioni genetiche di un donatore (esempio del caso di specie TP53) “non può essere rilevata con screening universali ma solo con test genetici mirati quando vi è un rischio noto o sospetto di malattie ereditarie”.
“Risulta in tutti i casi evidente – conclude – che riguardo al figlio che nasce i rischi di trasmissione di malattia genetica e non da donazione sono inferiori (stante gli esami che obbligatoriamente devono essere effettuati sul donatore) rispetto a quelli che derivano da concepimento in via naturale (dove normalmente nessun esame genetico viene effettuato).
Ne consegue che i bambini che nascono da tecniche di PMA eterologa (cioè con donazione di terzi alla coppia) che in Italia sono oltre 6000 all’anno, ove vengano rispettate le leggi e quindi i centri di PMA comunichino alle banche dei gameti e alle istituzioni preposte (registro PMA e CNT) i parti avvenuti sospendendo l’utilizzo di gameti una volta raggiunto il limite indicato, risultano, paradossalmente, più sicuri degli altri”.

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