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Gemelli digitali, che compiti svolgono gli avatar applicati alla farmacologia clinica

I modelli virtuali, repliche di pazienti reali, promettono di rivoluzionare i trial riducendo tempi, costi e barriere al reclutamento. Un giovane ricercatore italiano firma uno studio innovativo ad Harvard.

In medicina, nel campo della ricerca farmacologica, il concetto di “gemello digitale” si sta rivelando uno degli strumenti più promettenti per accelerare lo sviluppo di terapie innovative. Ma cosa sono, esattamente, i gemelli digitali? Si tratta di modelli virtuali che replicano fedelmente le caratteristiche cliniche, biologiche e comportamentali di un paziente reale. Creati grazie all’Intelligenza Artificiale generativa, questi avatar non sono semplici simulazioni, ma entità computazionali capaci di rispondere a trattamenti, evolvere nel tempo e interagire negli ambienti simulati. L’impiego consente di testare farmaci e protocolli terapeutici in modo più rapido e meno invasivo, riducendo il numero di soggetti reali necessari per una sperimentazione clinica e mantenendo elevati standard di sicurezza e affidabilità.

La logica è quella dell’integrazione: non sostituire del tutto i pazienti reali, ma affiancarli con repliche digitali che ne condividano le caratteristiche essenziali. Questo approccio consente di superare uno degli ostacoli più critici della ricerca clinica, ovvero il reclutamento dei partecipanti, soprattutto in caso di malattie rare o tumori poco diffusi, dove trovare un numero sufficiente di soggetti può richiedere ann.

A dare concretezza a questa prospettiva è uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine AI, firmato da Piersilvio De Bartolomeis, giovane ricercatore italiano, insieme a Issa Dahabreh, professore di epidemiologia alla Harvard School of Public Health, e Robert Yeh della Harvard Medical School. De Bartolomeis, di 26 anni originario, di Battipaglia e laureato in Ingegneria informatica al Politecnico di Milano, sta completando un dottorato in Machine Learning a Zurigo, dopo un periodo di sei mesi alla Harvard University, sostenuto dalla Ermenegildo Zegna Founder’s Scholarship.

“Nell’editoriale esaminiamo i nuovi metodi di generative AI per cercare di simulare e accelerare le sperimentazioni dei nuovi farmaci nelle fasi cliniche, ovvero sui pazienti”, ha dichiarato De Bartolomeis a Manuela Correra dell’Agenzia Ansa. “Facciamo riferimento a due nostri studi e ad un terzo studio del team di Microsoft. Ci sono una serie di modelli, inclusi quelli che stiamo sviluppando, che permettono di utilizzare l’AI generativa per velocizzare alcune fasi della sperimentazione”.

Il vantaggio è concreto: “Se prima servivano 100 pazienti per un trial, ora ne potranno bastare 70 impiegando l’AI, e ciò permette di concludere la sperimentazione più velocemente”, chiarisce il ricercatore. “Soprattutto per alcuni ambiti, la parte più difficile è rappresentata dal reclutamento, perché è difficile trovare pazienti, soprattutto in relazione a patologie rare. È qui che interviene l’AI: si simulano alcuni di questi pazienti, creando un ‘mix’ di soggetti veri e digitali, i cosiddetti gemelli digitali, che hanno le stesse caratteristiche cliniche dei pazienti reali”.

La novità del metodo proposto dal team risiede proprio nell’equilibrio tra reale e virtuale. “Rispetto a studi passati, che ipotizzavano l’utilizzo esclusivo di gemelli digitali con risultati non del tutto ottimali, la nostra innovazione consiste nell’aver ideato un sistema che combina in modo calibrato dati di pazienti reali e digitali. Questa integrazione garantisce la sicurezza e assicura gli stessi livelli di affidabilità del metodo tradizionale, riducendo però in maniera significativa il numero necessario di soggetti reali”.

Il rispetto delle linee guida delle agenzie regolatorie, come FDA ed EMA, è un punto fermo. “Questi modelli di intelligenza artificiale sono utilizzati nel rispetto di rigide normative”, precisa De Bartolomeis. La ricaduta pratica è evidente: il farmaco potrà arrivare prima sul mercato, accelerando la disponibilità per i pazienti.

Attualmente, il team ha avviato una partnership con una Pharma Company per testare questi metodi in un contesto clinico. E guarda già al futuro: “Il nostro obiettivo è creare una start-up”, annuncia il giovane ricercatore. Tuttavia, avverte, “l’applicazione dell’AI nel settore medico-farmaceutico richiede una grande cautela. L’AI non potrà mai simulare l’intera sperimentazione clinica, che richiederà sempre studi su pazienti umani e la supervisione diretta degli specialisti”.

Dietro l’entusiasmo per la ricerca, emerge anche una riflessione critica sul sistema italiano. “Oggi mi sento abbastanza un cervello in fuga, ma è una scelta obbligata: in Italia è molto difficile fare ricerca innovativa, soprattutto nell’ambito dell’AI”, osserva De Bartolomeis. “Negli Stati Uniti c’è una diversa organizzazione, una concentrazione di persone che fanno ricerca in questi ambiti, e maggiori finanziamenti. Diverso è anche il sistema di reclutamento, molto più meritocratico”.

Infine, il ricercatore sottolinea un nodo cruciale: “L’Italia ha una ridotta capacità di attrarre talenti della ricerca: mancano meccanismi e condizioni per farlo, mentre paesi come Usa e Svizzera puntano proprio su questo per costruire il progresso”.

Il lavoro sui gemelli digitali apre dunque una nuova frontiera nella sperimentazione clinica, dove l’Intelligenza Artificiale non sostituisce l’uomo, ma lo affianca, accelerando i processi e rendendo più efficiente la ricerca. Un passo avanti verso una medicina più rapida, personalizzata e accessibile.

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