Anche quest’anno ci ritroviamo a discutere di casi clinici, screening e ricerche, in concomitanza con la Giornata Mondiale dell’AIDS, e lo facciamo con Giovanni Guaraldi, professore di malattie infettive all’Università di Modena e Reggio Emilia, uno tra i maggiori studiosi di clinica metabolica e immunosenescenza. Sono tante le acquisizioni recenti in materia, ed è un po’ un peccato pensare di affrontare questi temi soltanto in occasione del primo dicembre.
Abbiamo strumenti formidabili per fare prevenzione, come la PREP, eppure si tende purtroppo ancora ad abbassare la guardia, come se il problema fosse archiviato, ecco perché occorre lanciare un messaggio forte e chiaro, rivolto a maggior ragione alle giovani generazioni, che devono imparare a proteggersi, perché il virus è tuttora presente, pronto a prenderci in contropiede. “In realtà – afferma il noto docente – stiamo ancora vivendo la grande pandemia dell’ HIV, che dagli anni 80 non si è ancora spenta. Abbiamo dati interessanti che possiamo apprendere dal bollettino dell’Istituto Superiore di Sanità. Quest’anno poi c’è un’importante novità: per la prima volta ci viene offerta una stima precisa del numero delle persone infette”.
Professor Guaraldi, che cosa si desume dalle proiezioni del bollettino?
“Stiamo parlando di 140.000 persone che vivono in Italia con HIV, ed è un numero importante, dobbiamo però dire che l’Italia riconosce un buon percorso di presa in carico del malato, che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità e YouandAIDS prevede l’identificazione di almeno il 95% delle persone sieropositive infette diagnosticate, di queste almeno il 95% in cura, e delle persone in cura almeno il 95% di loro con carica virale undetectable, è molto importante quest’ultima condizione perché noi sappiamo che le persone che vivono con HIV e che facendo la terapia antiretrovirale raggiungono l’ undetectability sono persone che non trasmettono più l’infezione da HIV, questo è un assioma che identifica quello che noi oggi si definisce treatment as prevention (Terapia come Prevenzione, farmaci antiretrovirali come strumento per ridurre il rischio di trasmissione del virus, ndr). Se riuscissimo a mettere in terapia almeno il 95% delle persone con infezione da HIV, ben presto l’epidemia scomparirebbe”.
Quali progressi stiamo registrando, nella pratica clinica?
“La ricerca scientifica ha determinato un cambiamento nella storia naturale della malattia. Quando ho cominciato la mia carriera da giovane medico una infezione da HIV significava una malattia rapidamente fatale. Oggi noi sappiamo che la malattia da HIV è una condizione praticamente sempre cronicizzabile. Siamo in grado di fare in modo che la carica virale delle persone infette possa azzerarsi, evitando così la progressione verso l’AIDS; e nelle persone che hanno già manifestato l’Aids possiamo avere un adeguato recupero immunologico. Questo ha fatto sì che la speranza di vita delle persone con HIV oggi sia praticamente simile a quella della popolazione generale, almeno quando queste persone ricevono una diagnosi in una condizione immunologica ancora soddisfacente”.
“Le terapie antiretrovirali hanno cambiato il volto della persona con infezione da HIV. Questa malattia adesso è divenuta, praticamente, cronica, una malattia che può permettere alle persone che vivono con HIV di avere la stessa speranza di vita delle persone HIV negative, questo almeno per tutte quelle persone che iniziano la terapia antiretrovirale in una condizione immunologica buona”.
Eppure, professor Guaraldi, si riscontra ancora un sensibile divario in termini di salute da colmare, nelle persone HIV positive. Cosa resta da fare?
“Noi medici vediamo che il lasso di tempo nel quale una persona con HIV sperimenta comorbosità o fragilità è almeno quindici anni superiore rispetto alla popolazione generale. Ed è qui che dobbiamo concentrarci per cercare di perseguire un importante traguardo. Questo obiettivo non è più soltanto il raggiungimento della carica virale azzerata, traguardo peraltro fondamentale perché avere una carica virale undetectable vuol poi dire che il soggetto con infezione da HIV non è più in grado di trasmetterla. Ma noi dobbiamo anche pensare che il nostro obiettivo di cura è raggiungere una buona qualità della vita, una qualità della vita che sia paragonabile a quella delle persone che vivono senza questa infezione. Allora è su questo dove dobbiamo lavorare”.
La routine delle persone con HIV è cambiata rispetto a quindici, venti o trenta anni fa, vecchi stereotipi sono venuti meno, tanti pregiudizi superati. Quale è il modello biologico attuale?
“Le persone con HIV sono una popolazione estremamente eterogenea. Continuiamo ad avere purtroppo tanti giovani che si infettano, sono persone giovani, e sono persone che hanno poche comorbosità. Sappiamo però, dai dati epidemiologici, che oggi sempre di più sono le persone nella fascia di età 40-50 anni, principalmente eterosessuali, quelli che si infettano, e sono persone che hanno già spesso lamentato dei problemi di salute di base. Abbiamo poi tante persone con HIV che sono, per così dire, sopravvissuti alle vecchie epidemie, e magari sono invecchiate per venti, per trenta o quaranta anni insieme all’infezione. Abbiamo infine una categoria assolutamente unica, e cioè le persone che sono nate con infezione da HIV per una trasmissione verticale, e che magari adesso hanno trenta o trentacinque anni, e vivono una condizione del tutto particolare. Dunque allora, dicevamo, una popolazione molto eterogenea ma con un denominatore comune, le persone con infezione da HIV invecchiano, e questo è una cosa positiva perché vuole dire che la mortalità è diminuita, ma invecchiano in maniera diversa, e quindi molta ricerca sulla infezione da HIV cerca di andare a capire quali sono i determinanti dell’invecchiamento. Siamo di fronte a un modello biologico unico di un invecchiamento accentuato, accelerato talvolta, e questo ci aiuta a capire sempre meglio i meccanismi immunopatogenetici che sono alla base del fenomeno dell’invecchiamento”.
Come si è evoluto il ruolo dell’infettivologo? Quali sono gli indicatori di buona salute in questi pazienti?
“Noi siamo i clinici che dobbiamo prenderci carico delle persone con HIV che invecchiano, abbiamo bisogno di ricorrere a modelli assistenziali completamente diversi da quelli che utilizzavamo prima. Vent’ anni fa l’obiettivo era cercare di ottenere un farmaco che fosse sufficientemente potente, in grado di riuscire a controllare la carica virale, cercare di combattere il rischio dell’induzione della farmacoresistenza. Oggi certamente l’obiettivo, il riscontro virologico, è alla base. Diamo ormai per scontato che l’obiettivo della terapia è azzerare la carica virale, ma chiedo qualcosa di più al modello di cura, chiedo di riuscire a controllare quella condizione di inflammaging, cioè quella condizione immunologica di infiammazione a basso livello, che però non riesco ad arrestare semplicemente azzerando la carica virale da HIV. Tutto questo fa sì che, come dicevamo prima, la persona con infezione da HIV sperimenti le malattie associate all’invecchiamento in un’età più precoce rispetto alla media, e in ultima analisi accelera il suo percorso di invecchiamento verso una condizione di fragilità e disabilità”.
Negli anni i farmaci a disposizione sono migliorati in maniera incredibile, e nella seconda parte del nostro colloquio entreremo nel merito delle molecole, delle opzioni terapeutiche, e della prevenzione. Come descriverebbe i progressi cui abbiamo assistito finora?
“Gran parte dei nostri successi sono sicuramente dovuti alle terapie che negli anni si sono evolute in maniera sorprendente. Abbiamo cominciato la terapia antiretrovirale negli anni 80 con la AZT, un farmaco che non migliorava la speranza di vita delle persone”.
“Abbiamo avuto, nel 1996, l’avvento della terapia combinata ad alta efficacia, cosiddetta Highly Active, che consiste nella combinazione di due o tre farmaci a diverso meccanismo di azione (inibitori della trascrittasi inversa, inibitori della proteasi, inibitori dell’integrasi, inibitori della fusione ed ingresso virale, ndr). Era una terapia altamente efficace, che per la prima volta abbatteva il rischio di mortalità delle persone, ma era associata a un rischio di tossicità relativamente elevato. Oggi possiamo riassumere le terapie antiretrovirali addirittura in una unica compressa, single tablet regimen (una somministrazione che contiene due o tre farmaci, efficaci e ben tollerati, ndr). La combinazione aiuta a prevenire quel rischio di emergenza di resistenze, un rischio che è dovuto alla capacità del virus di mutare a ogni atto replicativo. I rischi di tossicità metaboliche, cardiache, o della stessa lipodistrofia, sono sicuramente molto diminuite grazie agli attuali regimi”.
Come si arriva a impostare una moderna terapia antiretrovirale?
“Oggi è cambiato il modo in cui proponiamo e scegliamo la terapia, in questo senso ritengo che l’HIV costituisca un modello assolutamente unico in medicina, un modello di terapie che vengono scelte nell’ambito di un processo detto di concordanza, cioè io certo parto dalla mia esperienza di persona che ormai da quaranta anni gestisce la terapia antiretrovirale, e devo cercare una soluzione che sia sicuramente potente, che abbia sempre meno rischi di indurre resistenza, ma questa volta chiedo alla terapia qualcosa di più, parto dal presupposto che la terapia azzeri la carica virale, ma devo scegliere in maniera sartoriale la terapia antiretrovirale per considerare che il mio obiettivo non è solo distruggere il virus, il mio obiettivo è migliorare la salute della persona con HIV”.
Come è possibile personalizzare le prescrizioni?
“C’è stato un cambiamento di paradigma, il medico deve conoscere bene la persona che ha in cura, e sceglie la terapia anche attraverso le preferenze del suo interlocutore, e qui vorrei precisare: andare a dire che la terapia viene scelta sulle preferenze del paziente non significa assecondare questo o quel capriccio. Significa che il medico deve conoscere qual è lo stato di salute del paziente, e indagare tanti aspetti che fanno riferimento alle paure o alla vita quotidiana del paziente. Partiamo dal presupposto che ci muoviamo in un contesto nel quale la persona deve seguire anche altri protocolli di cura”.
Possiamo ben comprendere che in un paziente adulto, anziano, il medico si potrebbe trovare a dover conciliare la terapia antiretrovirale con altri protocolli, ad esempio, al tempo stesso, tenere a freno vuoi il colesterolo, vuoi l’ipertensione, e magari a volte destreggiarsi con un diabete o qualche altro disturbo metabolico. Avanti di questo passo dove arriveremo?
“Arriviamo al punto che il medico deve e dovrà muoversi. sempre più spesso, nell’ambito di una politerapia, dovrà tenere conto del rischio di interazioni farmacodinamiche, valutare un rischio di inappropriatezza, scongiurare tossicità intrinseche associate, ad esempio, al livello cognitivo. Quindi oggi la prescrizione antiretrovirale si inserisce nel più vasto capitolo della polifarmacologia dell’anziano. Sono essenzialmente i geriatri a darci le coordinate secondo l’assunto che less is more, dobbiamo dare solo i farmaci che riusciranno a portare un beneficio sulla qualità della vita a lungo termine. Passa anche qui il concetto che certo devo insistere sulla medicina preventiva, e tenere conto, se vogliamo, che quel paziente in carico alle malattie infettive deve seguire pure una terapia con farmaci cardiovascolari o con le statine. Quindi, devo considerare che il mio approccio terapeutico deve essere finalizzato al miglioramento della qualità della vita, e per questo mi devo sempre interrogare, valutare se posso ridurre il carico farmacologico in funzione dell’ outcome. Come si può intuire, questo percorso richiede un dialogo costante con il paziente”.
Abbiamo detto della grande novità di questi farmaci antiretrovirali che sono sicuramente molto meno tossici rispetto al passato. Una delle tossicità che preoccupava le persone che vivevano con HIV, e il motivo per cui è nata la clinica metabolica, era il problema della lipodistrofia. Certi farmaci determinavano un’alterazione del tessuto adiposo, essenzialmente causando un fenomeno di lipoatrofia periferica, soprattutto facciale, il che rendeva le persone riconoscibili. In realtà, abbiamo capito che questa lipodistrofia era un fenomeno molto più complesso che riguardava una tossicità mitocondriale sistemica. Anche se il fenomeno della lipoatrofia è scomparso, o meglio, è solo un retaggio delle terapie passate e non è più presente nelle terapie attuali, i problemi metabolici sono sempre più importanti perché sono in gran parte legati all’invecchiamento delle persone e al fatto che l’accumulo di grasso, soprattutto a livello viscerale (ad esempio, il grasso retroperitoneale e il grasso epatico), continua ad aumentare. Questo può essere in parte legato ai farmaci antiretrovirali.
Ci troviamo in una condizione di paradosso: se prima dell’era delle terapie antiretrovirali l’infezione da HIV era chiamata “slim disease” (la malattia che faceva dimagrire), oggi siamo preoccupati del fatto che i farmaci antiretrovirali, insieme sopratutto agli stili di vita e all’invecchiamento del soggetto, possono portare a un aumento di peso e a una condizione metabolica molto complessa, che è l’obesità. In questo contesto, la nostra gestione della terapia antiretrovirale deve preoccuparsi di come evitare o controllare l’incremento di peso (quello che chiamiamo “weight gain”) o gestire l’obesità.
Recentemente, abbiamo avuto studi importanti che hanno dimostrato come, per esempio, uno switch verso una duplice terapia antiretrovirale, essenzialmente dolutegravir e 3TC, rispetto a uno switch verso una triplice terapia antiretrovirale, bictegravir TAF e FTC, ha comportato un rischio rispettivamente del 20% contro il 30% di incremento di peso significativo. Quindi, devo preoccuparmi del fatto che la terapia antiretrovirale deve inserirsi nella valutazione della salute metabolica, perché è fondamentale per agire sulla componente infiammatoria. Anche se non ho farmaci antinfiammatori diretti, se riesco a migliorare la salute metabolica, riduco lo stato infiammatorio. Questo dipende da come scelgo la terapia antiretrovirale e da come faccio accedere alle terapie metabolicamente attive, ricordiamo le statine e la semaglutide, oggi farmaco molto interessante per la gestione dell’accumulo di grasso e della steatosi epatica, per avere un effetto immunologico. L’HIV diventa così un modello unico per studiare come farmaci metabolicamente attivi, sia antiretrovirali che non antiretrovirali, possano migliorare lo stato immunologico del soggetto.
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>> Link alla seconda parte dell’intervista al professor Giovanni Guaraldi <<
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