I medici docenti universitari italiani stanno affrontando una grave crisi economica e professionale. Il racconto all’AGI di un neurochirurgo della Sapienza di Roma e Dirigente medico presso il Sant’Andrea di Roma è emblematico: dopo un intervento di 8 ore, calcolando il corrispettivo orario rispetto alla paga mensile per l’integrazione ospedaliera per 28 ore settimanali di attività clinica assistenziale obbligatoria (di circa 200 euro netti) si traduce in una retribuzione di appena 1,78 euro l’ora per fare anche il medico “con responsabilità cliniche che non hanno paragoni con nessun altro settore accademico”. La situazione è particolarmente grave per i giovani medici universitari, che guadagnano tra 1.300 e 2.300 euro netti al mese, indipendentemente dalla loro specializzazione o esperienza. “Questo ha portato a una fuga dei cervelli verso il privato o l’estero, con molti professionisti che abbandonano la carriera accademica per cercare migliori opportunità – spiega a Mondosanità Pierino Di Silverio, segretario nazionale Anaao – la denuncia del collega si commenta da sola ed è un esempio di quanto vale il lavoro del medico in Italia ed è questo uno dei problemi ai quali noi chiediamo da tempo di porre rimedio di certo non si risolve con aumenti equivalenti a un caffè, occorre invece una riforma della professione e del contratto lasciando la libertà al medico di poter operare anche privatamente e soprattutto pagando meglio i medici altrimenti non ci sarà la fuga dei cervelli ma la fuga dagli ospedali che già esiste perché dieci al giorno se ne vanno nel privato o all’estero”.
Le cause di questa situazione sono molteplici: l’abolizione della legge De Maria nel 2017, che regolava le retribuzioni dei docenti universitari medici, è stata abolita nel 2017 e ha lasciato un vuoto normativo che ha creato problemi ai medici universitari. Precedentemente i docenti universitari medici avevano diritto a una retribuzione integrativa per l’attività clinica svolta presso le strutture sanitarie pubbliche e la retribuzione integrativa era calcolata in base al numero di ore di attività clinica svolta e al livello di responsabilità del docente. La legge prevedeva anche un sistema di incentivazione per i docenti universitari medici che svolgevano attività di ricerca e didattica.
La mancanza di una normativa chiara ha creato disparità di trattamento tra i medici universitari e gli altri professionisti sanitari e pertanto la fuga dei cervelli verso il privato o l’estero è aumentata a causa delle condizioni economiche e professionali precarie.
Alla luce di queste criticità i medici docenti universitari stanno chiedendo un rinnovo degli accordi tra Regioni e Università per garantire stipendi dignitosi e proporzionati alle loro responsabilità, un aumento degli investimenti nella sanità pubblica e nella ricerca per migliorare le condizioni di lavoro e le opportunità di carriera, una maggiore trasparenza e equità nel trattamento economico dei medici universitari rispetto agli altri professionisti sanitari.
Negli anni la mancanza di investimenti nella sanità pubblica e nella ricerca ha reso difficile per i medici universitari svolgere il loro lavoro con dignità e professionalità.
La situazione è critica e richiede un intervento urgente delle istituzioni per garantire il futuro della sanità pubblica e della ricerca in Italia
Tra le richieste della categoria vanno ricordati il rinnovo degli accordi tra Regioni e Università per garantire stipendi dignitosi e proporzionati alle loro responsabilità, un aumento degli investimenti nella Sanità pubblica e nella ricerca per migliorare le condizioni di lavoro e le opportunità di carriera, una maggiore trasparenza e equità nel trattamento economico dei medici universitari rispetto agli altri professionisti sanitari.
I medici del Servizio sanitario nazionale che svolgono anche il ruolo di docenti universitari rappresentano un patrimonio prezioso del sistema sanitario pubblico. In 85 camici bianchi del Sant’Andrea (ma non succede solo nell’ospedale romano, e non solo nel Lazio) hanno sottoscritto un appello alla politica e alle istituzioni “per rinnovare gli accordi, valorizzare il lavoro clinico e accademico, garantire stipendi dignitosi”. E per tamponare la fuga, inevitabile, verso il privato o all’estero alla ricerca di un trattamento adeguato. Appello promosso da Alessandro Ferretti, Andrea Redler, Andrea Giannini, Damiano Caruso, Gianluca Esposito, Michail Sorotos, Silvia Fiorelli e Luca Ricciardi.
I protocolli di intesa tra Ateneo e Azienda ospedaliera universitaria, che dipende dalla Regione attribuiscono mediamente a un ricercatore o un professore associato in area medica uno stipendio dall’Università mediamente tra 1.300 e 2.300 euro netti al mese, a seconda del proprio ruolo ma l’integrazione per le attività assistenziali è marginale.
Gli accordi tra Regioni e Università, basati sulla norma 517 del 99 e la sua mancata applicazione in modo omogeneo sul territorio nazionale, con realtà diverse da regione a regione hanno inoltre cristallizzato una disuguaglianza del trattamento economico a macchia di leopardo creando situazioni paradossali come quella del Sant’Andrea, ma è successo anche a Cagliari, Ferrara, Genova, Torino, Napoli. A rimetterci sono stati in genere i giovani universitari e questo ha contribuito a creare un ulteriore ostacolo al reclutamento nel mondo accademico di giovani capaci.
“E’ questo il motivo – conclude Di Silverio – per cui i giovani medici sempre meno frequentemente scelgono la carriera universitaria e il motivo per il quale nel mondo universitario prolifera l’attività privata a scapito del pubblico in quanto costretti a svolgere due lavori, con responsabilità doppie, per avere un indennizzo che non è minimamente proporzionato alla mansione svolta”.
E così ogni giorno dieci camici bianchi, tra dirigenti medici, primari e specialisti, spesso i più bravi e con possibilità di guadagni, abbandonano le corsie di una Asl o di un ospedale pubblico per dirigersi verso il lavoro privato. La spesa privata nel nostro Paese assorbe circa 41 miliardi di euro che si aggiungono ai 136,5 della torta nazionale dei finanziamenti della spesa pubblica assorbendo dunque oltre il 23% della spesa complessiva. Ben oltre la soglia considerata fisiologica, del 15%, da parte dell’organizzazione mondiale della Sanità. Un sistema, quello delle cure italiano, sempre meno pubblico e universalistico ma sempre più “misto” solo per una piccola percentuale intermediato da casse professionali private e assicurazioni.





