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Testimonianza di un’epidemia della retorica

di Paolo Guzzanti
Senatore, Giornalista e Scrittore

Non ho mai guardato in faccia la morte, ma stavolta sì. Per ora abbiamo soltanto flirtato, ma non è andata bene a tutte le persone che conosco.

Sono vivo e vegeto, ma ho tutte le caratteristiche del paziente a rischio. Ho superato da qualche mese gli ottanta anni e sono rimasto esterrefatto vedendo realizzarsi la profezia che avevo azzardato appena sono arrivati i primi vaccini: l’Italia è un paese corporativo in cui i cittadini sono divisi per corporazioni di arti e mestieri, poi per sindacati, poi per regioni e appartenenza politica, dunque ci sarà l’assalto alla diligenza e tutti si vaccineranno prima di aver messo in salvo quelli che rischiano la pelle, come me, perché – per fortuna – la morte colpisce solo quelli oltre i settantacinque.
Chi muore a trent’anni, o a venti, finisce sul giornale perché è un’anomalia statistica, ma non è un’anomalia che – per ultimi – magistrati e avvocati abbiano imposto agli altri di scavalcare la fila. Amen. Pazienza.
Non ho mai guardato in faccia la morte, ma stavolta sì. Per ora abbiamo soltanto flirtato, ma non è andata bene a tutte le persone che conosco. L’epidemia che mi ha più colpito è stata quella della retorica e delle frasi fatte.
Quella degli esperti che nella graduatoria mondiale scientifica non sono nessuno e insomma non voglio insistere troppo sul fatto che l’Italia del Covid-19 per usi e costumi non è diversa da quella descritta dal Manzoni durante la peste, dal Pinocchio di Collodi e dal discorso sul carattere degli Italiani di Giacomo Leopardi, che ha due secoli ma è il più attuale.
E ci metto pure “Italians” di Luigi Barzini. Non è possibile separare l’identità del mio Paese da quella di uno che affronta una cosa così orrenda ed eccezionale come una epidemia.
Se uno non si becca il virus e non finisce sedato con polmonite interstiziale doppia, è andata bene e così sia.
Il titolo da libreria dal valore permanete resta quello del maestro Marcello D’Orta “Io speriamo che me la cavo”.
Noi in Italia speriamo che ce la caviamo, sempre. L’armata della retorica seguirà.
Ho sofferto vedendo la mattanza dei medici e degli infermieri.
Quella mattanza avrebbe potuto essere evitata se si fossero fin dall’inizio seguiti i protocolli già studiati dall’OMS, ma che nessuno aveva scaricato. Molto primitivo il linguaggio militare.
In prima linea, il fronte della pandemia, i caduti del Covid, tutte sciocchezze per fingere una situazione diversa da quella reale, che avrebbe richiesto conoscenza, senso dell’organizzazione e muso duro.
Qualcuno forse dirà che sto parlando di politica.
Forse sì. Ma quale? Tutti i Paesi hanno fatto errori, ma noi più degli altri. Se negli Stati Uniti – che sono circa sei volte l’Italia – fossero morti come in Italia, avrebbero seicentomila morti.
Nulla di cui vantarsi. Io speriamo che ce la caviamo tutti e sarebbe stato bello avere una informazione capace di convincere i giovani senza toni minacciosi che non è l’ora dell’apericena. Quando cominciai le elementari, la guerra non era ancora finita, ed era un mondo terribile e triste, altro che lockdown e discoteca sui Navigli e shopping a via del Corso. Per farmi detestare ancora di più, voglio dire che questa pandemia ha lasciato qualche pepita d’oro nella sua melma: abbiamo riscoperto il valore della noia. I ragazzi hanno dovuto fronteggiare questo fenomeno sconosciuto; e adesso? Che faccio? Chi vedo, dove vado? Calma, ragazzi.
Siamo diventati tutti più tosti e più sinceri.
C’è depressione in giro ed è una cosa seria.
Ma anche se tutto il male viene solo per nuocere, credo che chi ce l’ha fatta sarà più completo.
Ne sono sicuro.

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