Quali conseguenze avranno sul mercato italiano gli ordini impartiti dal presidente americano Donald Trump per spingere Big Pharma ad abbassare il costo fino all’80, 90% di alcune specialità medicinali prescrivibili negli Usa?
Come suo solito il Tycoon spinge al massimo sull’acceleratore in vista di una successiva probabile frenata che servirà a migliorare le possibilità di una mediazione. Per ora, infatti, non scatta un obbligo ma si profila soprattutto uno scenario che però nel nostro Paese ha già mandato in fibrillazione alcune big della produzione farmaceutica soprattutto nelle realtà regionali come Lombardia , Campania e Lazio che detengono fette importanti del marcato farmaceutico nel nostro Paese.
La produzione di farmaci in Campania è ad esempio un settore strategico e in crescita, con l’industria farmaceutica che ha prodotto oltre 4 miliardi di euro di esportazioni nei primi 9 mesi del 2023. La Campania è un polo di attrazione per le aziende farmaceutiche, con importanti investimenti e una forte vocazione all’export mentre in Lombardia la filiera Life Science rappresenta il 12,6% del Pil regionale e l’export farmaceutico vale 9,8 miliardi di euro con un +28% rispetto al pre-Covid.
Ma vediamo nel dettaglio cosa ha in mente il presidente americano Donald Trump: per una lista di farmaci non ancora ben delineata saranno fissati tetti di spesa massimi favorendo peraltro gli acquisti a più basso costo all’estero. «II potere del governo federale – ha spiegato il Tycoon – sarà impiegato per imporre i prezzi massimi, con una legge ad hoc. Le nazioni che si opporranno a questo meccanismo potrebbero subire nuovi dazi». Previsto anche il taglio delle intermediazioni e, nelle prossime settimane, una revisione dei rimborsi dei programmi di sanità para-pubblica Medicare e Medicaid. Con i risparmi verrà finanziato il Golden Dome, il futuro scudo antimissili statunitense.
Già durante il suo primo mandato Trump esperì un tentativo simile di configurare gli Usa come la nazione più favorita dai prezzi più bassi. Un meccanismo che poi naufragò. Anche nel 2020 una ulteriore proposta simile fu avanzata da Joe Biden e poi bloccata sul nascere dopo essere stata impugnata dall’industria farmaceutica e infine revocata dall’inquilino di allora della Casa bianca. Per aggirare l’ostacolo ora i produttori potrebbero negoziare sconti con accordi diretti con i governi stranieri finendo per mantenere artificialmente più i prezzi alti negli Stati Uniti. A Wall Street intanto il valore delle azioni delle case farmaceutiche degli Usa sono salite ma se la misura dovesse diventare strutturale i margini di guadagno delle company sarebbero destinati a calare drasticamente nel mercato interno facendo diminuire anche gli investimenti su ricerca e sviluppo anche nel campo dei “salva-vita”, che arriverebbero più lentamente nelle farmacie di tutto il mondo. Va ricordato che l’investimento in innovazione deriva proprio dal surplus degli incassi nei farmaci al dettaglio delle Big Company che hanno sede oltreoceano.
In Italia il comparto dell’industria farmaceutica non ha ancora preso posizione ed anche in Europa le multinazionali sono silenti in attesa che si diradino le nebbie degli annunci e si riesca a decifrare cosa si profila in termini di norme e leggi che regolamenteranno questo trainante settore dell’economia negli Usa. Per ora prevale la cautela, ma da alcuni produttori filtra il timore che possano ridursi i margini di chi esporta o di chi era andato a produrre direttamente negli Usa. D’altronde 700 dei principi attivi su 3.500 presenti nei prontuari americani sono prodotti in Europa. E di questi, a loro volta, oltre il 10% è Made in Italy. L’Italia è il primo esportatore europeo di farmaci, con un 14% dell’export di settore che finisce proprio in America, per un valore di circa 10 miliardi di euro, mentre le importazioni si fermano a sette. Nel mirino del Tycoon c’è probabilmente proprio l’Europa.
«I pazienti americani – ha spiegato Trump – sovvenzionano i sistemi sanitari socialisti Ue». Ma mentre nel Vecchio Continente i prezzi dei farmaci sono amministrati dagli enti regolatori, negli States sono definiti dal mercato. Questo rende gli Usa, dove il sistema sanitario è dominato dalle assicurazioni private, una delle maggiori fonti di profitto per le multinazionali e le aziende europee. Non a caso in America c’è carenza di farmaci da banco, che non si producono più nel Paese. I prezzi negli Usa sono così in media da due a tre volte superiori a quelli di altre nazioni sviluppate e fino a 10 volte superiori rispetto ad alcuni Paesi. Secondo Trump il fatto che le tariffe dei farmaci in America siano alte, è responsabilità di «alcuni Paesi che hanno costretto le Big Pharma». L’obiettivo ora è capovolgere questo scenario ma non è detto che l’operazione trascini con sé tutto il mercato in una battuta di arresto di dimensioni imprevedibili considerando che la lista di farmaci coinvolti, secondo Trump, è quella con «le maggiori disparità e le maggiori spese» e in generale più popolari come gli antidiabetici e gli anti obesità.
Gli effetti sulle esportazioni e sulla filiera produttiva italiana vanno analizzati a fondo. La premessa è che nel nostro Paese si producono soprattutto specialità a basso costo oppure si confezionano quelli più onerosi i cui principi attivi arrivano dai mercati asiatici dove costano la metà o un terzo. In poche parole la riforma protezionistica che Trum si appresta ad adottare per salvaguardare il suo elettorato che vuole ridurre le spese per gli acquisti di medicinali potrebbero avere riverberi limitati lungo lo Stivale. L’aumento della domanda interna nel mercato Usa avrebbe poi una funzione riequilibratrice mentre le esportazioni potrebbero aumentare in quantità, mantenendo intatto il valore complessivo dei profitti a patto che non scattino ulteriori dazi come previsti al 25%. In questo scenario la produzione resterebbe in Europa e in Italia mentre solo i settori ricerca e sviluppo potrebbero essere trasferite fuori dai confini Usa, in Italia e in Europa dove i camici bianchi sono pagati meno.
i primi effetti della decisione di Trum sono tuttavia di evidenza empirica con un il pesante calo in Borsa delle principali case farmaceutiche (l’inglese AstraZenecam la danese Nordisk, la francese Sanofi e l’elvetica Hoffmann-La Roche. In rosso a Piazza Affati anche Recordati, il principale gruppo farmaceutico italiano quotato in Borsa come Bracco e Zambon, senza dimenticare Italfarmaco, Alfasigma e Mediolanum Farmaceutici. Inoltre, la piemontese Diasorin ha il principale stabilimento produttivo a Gerenzano, in provincia di Varese, e i maggiori brand internazionali del settore, da Bayer a Pfizer, hanno le proprie sedi italiane a Milano. Particolarmente significativo è l’export che rischia di essere quello più sotto pressione dalla decisione di Trump Nel 2023 le esportazioni delle imprese farmaceutiche lombarde ammontavano a 9,8 miliardi di euro, più dell’Île de France (9,2 miliardi) e della Catalogna (9,0 miliardi), grandi regioni europee con una sviluppata industria farmaceutica prese a confronto nel report.