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Peste a Venezia e Covid, senza memoria non c’è storia

Peste a Venezia, la città in preda alla pestilenza viene raccontata da chi l’ha vissuta come medico e come uomo, con gli occhi di un narratore attento ai particolari e all’animo umano.

Dalla testimonianza di Alvise Zen, noto medico del 600’. Eccellentissimo monsieur d’Audreville, vi racconterò quei terribili giorni della peste a Venezia solo perché sono convinto che senza memoria non c’è storia e che, per quanto amara, la verità è patrimonio comune.
E poiché, dopo l’orrore, quella vicenda si trasformò in una festa, anzi in una delle feste più amate dai Veneziani, mi è meno gravoso ricordarla.
Ma veniamo ai fatti.

Per secoli non ci fu calamità più spaventosa della peste. Il morbo veniva dall’Oriente e dunque tutte le strade del commercio, che era per Venezia la principale fonte di ricchezza, si trasformarono in vie di contagio. Era il 1630. Assieme alle spezie e alle stoffe preziose, le navi della Serenissima trasportarono anche la morte nera.
Ah! mio caro amico, nemmeno le guerre e le carestie offrivano uno spettacolo così desolato.

Peste  a Venezia, dipinto da wikipedia
Antonio Zanchi – La Vergine appare alle vittime della peste del 1666
Scuola Grande di San Rocco, Venezia

La Repubblica approntò subito una serie di provvedimenti per arginare l’epidemia: furono nominati delegati per controllare la pulizia delle case, vietare la vendita di alimenti pericolosi, chiudere i luoghi pubblici, perfino le chiese! I detenuti vennero arruolati come pizzegamorti o monatti. Potevamo circolare liberamente solo noi medici.
Gli infermieri e i becchini dovevano portare segni distintivi visibili anche da lontano; noi indossavamo una lunga veste chiusa, guanti, stivaloni e ci coprivamo il volto con una maschera dal naso lungo e adunco e occhialoni che ci conferivano un aspetto spaventevole.
Alzavamo le vesti dei malati con un lungo bastone e operavamo i bubboni con bisturi lunghi come pertiche. Uomini e donne malati venivano portati nell’isola del Lazzaretto Vecchio; le persone che erano state a contatto con gli appestati erano invece trasferite in quella del Lazzaretto Nuovo per più di venti giorni a scopo cautelativo.
Su una nave era stata issata una forca per giustiziare i trasgressori delle ordinanze igieniche e alimentari.

La peste straziava i corpi che erano ricoperti da “fignoli, pustole, smanie” e mandavano un odore fetido. I ricchi morivano come i poveri.
Volete sapere quanti Veneziani se ne andarono al Padreterno? Ottantamila, pensate, in diciassette mesi; dodicimila nel novembre del 1630; in un solo giorno, il 9, furono cinquecentonovantacinque.
Non c’era più chi seppelliva i cadaveri.

Per i canali transitavano barche da cui partiva il grido “Chi gà morti in casa li buta zoso in barca”.
Per le strade cresceva l’erba. Nessuno passava.
Illustrissimi medici dell’università di Padova, chiamati per un consulto, disconoscevano addirittura l’esistenza del morbo; guaritori e ciarlatani inventavano inutili antidoti; preti e frati indicavano nell’ira divina la vera causa di tutto quell’orrore calato su Venezia. La situazione era davvero tragica.
Allora il doge Nicolò Contarini, a nome del Senato, fece voto solenne di edificare una chiesa “magnifica e con pompa” alla Madonna della Salute se la Vergine avesse liberato la città dalla spaventosa malattia. Promise, inoltre, che ogni anno il 21 novembre, giorno della presentazione al Tempio di Maria, si sarebbe colà recato in processione.

Durante l’inverno la peste a Venezia si affievolì, ma nel marzo del 1631 ebbe una recrudescenza. Solo in autunno fu debellata.
Contarini era morto e il nuovo doge, Francesco Erizzo, volle subito adempiere il voto. Bandì dunque un concorso per l’edificazione del tempio ma intanto fece erigere una chiesa di legno riccamente addobbata dove governo e popolo, dopo aver attraversato il Canal Grande su un ponte di barche, si recarono in processione a esprimere la loro riconoscenza alla Madonna. Questo è quanto, monsieur: ve ne affido la testimonianza per i posteri.

Peste a Venezia, ritratto delle maschere utilizzate dai medici dell'epoca

La prevenzione, la diagnosi e la cura della peste a Venezia.
Alcune pratiche per il distanziamento sociale dell’epoca della peste a Venezia erano assai simili a quelle praticate oggi per arginare i contagi da Covid: l’isolamento in casa, sancito da una croce di legno per sbarrare le porte;
la chiusura dei luoghi pubblici, comprese osterie e chiese;
la maschera indossata dal medico con un naso lungo e adunco per permettere di filtrare gli odori (all’epoca infatti si pensava che il contagio avvenisse attraverso l’odore); la quarantena per chi arrivava da fuori, che veniva applicata anche alle merci; le sanzioni, che erano certamente più pesanti considerando che c’era la forca per i trasgressori.

Vigeva addirittura una sorta di autorizzazione (gratis) ad uscire dalla città, e non era certo un’autocertificazione.
I morti si buttavano in profondi fossi e/o si bruciavano. Non c’era alcuna medicina utile ad impedire il contagio e la “scienza” dell’epoca addirittura disconosceva l’esistenza del morbo.
Considerando che all’epoca non esistevano strumenti per analisi cliniche, la diagnosi era affidata solo a segnali evidenti tipici però di un solo tipo di peste, la peste bubbonica (linfonodi gonfi e dolenti detti “bubboni”).
Il ruolo di segnalazione, che per il Covid svolge il medico di famiglia, si affidava alle parrocchie, vigeva infatti l’obbligo di comunicare alla propria parrocchia i cittadini che avevano dei sintomi per poterli mettere in isolamento insieme alla loro famiglia.

Per curarsi si assumeva la teriaca, un farmaco di origine antichissima composto da polvere di vipera, di testicolo di cervo o di ‘corno di liocorno’, insomma un intruglio degno della migliore stregoneria.
C’era poi il salasso, uno dei metodi più diffusi per la cura di diverse patologie, che veniva praticato applicando sul corpo delle sanguisughe che succhiavano il sangue del malato, pensando che togliere il sangue infetto fosse un modo per curare la malattia; poiché il rimedio era molto costoso le persone che non potevano permetterselo usavano tagliarsi le vene, facendo colare il sangue in una ciotola.
Si credeva poi che fare il bagno nelle urine un paio di volte al giorno e bere uno o due bicchieri di questa sostanza, potesse essere utile per alleviare i terribili sintomi della malattia.
Ovviamente nessuna di queste “cure” fu efficace.

La peste a Venezia alfine scompare per “mano divina” (dopo diversi rigurgiti o ondate, come le chiamiamo oggi riferendoci al Covid), infatti a Venezia si festeggia il Redentore per ringraziare della fine dell’incubo.

di Giusi Levato
Comunicazione Mondosanità

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