Nonostante il fondo dedicato, l’Italia rallenta sull’obiettivo OMS 2030. Il progetto “Test in the City” prova ad abbattere le barriere, ma gli esperti avvertono: servono nuove strategie e criteri più inclusivi
In un Paese che ambisce a eradicare l’epatite C entro il 2030, come indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità, la mappa degli screening nelle regioni italiane mostra una realtà ancora troppo frammentata, con punte di eccellenza disseminate a macchia di leopardo. Al 30 giugno 2024, si sono sottoposte a screening oltre due milioni di persone, con circa 15.000 infezioni attive da HCV rilevate. Ma il dato che più preoccupa è un altro: soltanto il 12% della popolazione generale target ha effettuato il test di primo livello, nonostante l’Italia sia uno dei pochi Paesi al mondo a disporre di un fondo nazionale dedicato allo screening gratuito.
A rilanciare l’importanza del tema, in occasione della giornata di sensibilizzazione sulle epatiti del 28 luglio, è il progetto “Test in the City”, ideato e promosso da Gilead Sciences in collaborazione con la rete Fast Track Cities italiane e con Relab. L’iniziativa ha preso piede in 14 città italiane e si rivolge in modo specifico alle popolazioni migranti e alle persone che fanno uso di sostanze, categorie spesso escluse o marginalizzate dai percorsi di diagnosi e presa in carico.
“L’idea nasce dalla necessità di avvicinare queste persone nei luoghi che frequentano così da rendere più agevole l’esecuzione dei test rapidi per epatite C e B, e quindi anche delta, e Hiv”, ha spiegato Paolo Meli, coordinatore nazionale del progetto. Il principio è semplice ma dirompente: portare la prevenzione laddove le persone vivono, e offrire un accesso immediato alla cura. Il progetto ha permesso finora l’esecuzione di circa 4.000 test rapidi per Hiv, Hcv ed Hbv. Il 2,48% delle persone testate è risultato positivo a una o più infezioni. Il campione si è concentrato prevalentemente nella fascia d’età compresa tra i 20 e i 40 anni, con una prevalenza maschile pari a circa due terzi.
Nei casi di positività, il provvedimento è stato immediato. “Le persone individuate dallo screening sono state accompagnate a un centro di cura per effettuare un esame più specifico e, una volta confermato l’esito, in quasi tutti i casi è stato attivato un percorso di presa in carico”, ha sottolineato Miriam Lichtner, ordinario di Malattie Infettive all’Università Sapienza di Roma. In presenza di positività all’HBV sono stati inoltre effettuati o sono tuttora in corso test per l’HDV. “Il progetto ha consentito anche di validare dei percorsi di assistenza innovativi – aggiunge la professoressa Lichtner – è necessario collaborare con le comunità che vivono nei territori per capire quali possono essere le modalità e i luoghi più adatti per proporre lo screening, uno screening partecipativo che miri alla presa in carico e alla lotta allo stigma.”
Grazie alla comprovata efficacia dei test rapidi, l’attività può essere oggi svolta anche fuori dai contesti sanitari, coinvolgendo direttamente mediatori culturali e rappresentanti delle comunità. Il counseling immediato, garantito in fase di test, favorisce la presa in carico nei centri di cura e consente di abbattere barriere spesso invisibili ma profondamente radicate, come la diffidenza verso il sistema sanitario, il timore del giudizio, o la mancanza di informazioni.
La posta in gioco, però, è alta. Secondo Antonio Gasbarrini, direttore scientifico della Fondazione Gemelli, “lo screening per epatite C è capace di individuare questa infezione asintomatica che dovrebbe essere curata precocemente”. In Italia si stimano ancora oltre 300.000 persone infette, prive di sintomi e quindi non diagnosticate. Uno screening allargato della popolazione generale porterebbe a una riduzione in 10 anni di circa 5.600 decessi, 3.500 epatocarcinomi e oltre tremila casi di insufficienza epatica.
Ma per ottenere questi risultati serve una svolta, e non soltanto numerica. “L’auspicio è che lo screening non solo venga rifinanziato, ma ne vengano ampliati i criteri di inclusione e le strategie di attuazione”, avverte Stefano Fagiuoli, direttore dell’UOC di Gastroenterologia, Epatologia e Trapiantologia all’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo. L’Italia, ricorda Fagiuoli, è stata uno dei primi Paesi a pianificare una strategia per l’eradicazione dell’HCV, ma “data la situazione attuale è impensabile raggiungerlo, è evidente che si deve fare di più”.
Fare di più significa superare una logica di intervento frammentato e promuovere un approccio sistemico, inclusivo, capace di intercettare la malattia prima che diventi irreversibile. E significa, soprattutto, costruire fiducia. La sfida dell’epatite C non è solo clinica, ma sociale, relazionale, culturale. E in questa sfida, ogni test eseguito diventa molto più di una diagnosi: diventa un passo verso la dignità, la prevenzione e la cura.





