Uno studio della Columbia University evidenzia un’anomala reattività immunitaria nei casi di Chronic Fatigue Syndrome. Possibili nuove strade per la ricerca in farmacologia
La sindrome da stanchezza cronica, nota anche come encefalomielite mialgica (Me/Cfs), continua a rappresentare un enigma clinico e scientifico. Caratterizzata da un affaticamento persistente e debilitante, malessere post-esercizio (PEM) e disturbi cognitivi, la condizione è spesso sottovalutata o mal interpretata, nonostante colpisca milioni di persone nel mondo. Secondo i Centers for Disease Control and Prevention, negli Stati Uniti si contano fino a 3,3 milioni di casi, con un impatto economico stimato in 51 miliardi di dollari l’anno. Studi recenti confermano che non si tratta di una patologia psicosomatica, ma di una sindrome fisica con basi biologiche misurabili.
Un nuovo studio condotto dalla Columbia University e pubblicato sulla rivista NPJ Metabolic Health and Disease getta luce su un possibile meccanismo alla base della malattia: una risposta immunitaria eccessiva e disfunzionale nei confronti di batteri, virus e funghi. I ricercatori hanno analizzato campioni di sangue di 56 pazienti affetti da Me/Cfs e di 52 soggetti sani di controllo, sottoponendoli a stimolazioni microbiche simulate, sia prima che dopo l’esercizio fisico. I risultati sono stati sorprendenti.
Nei pazienti con Me/Cfs è emersa una chiara disregolazione immunitaria, accompagnata da disfunzioni metaboliche e danni tissutali. In particolare, le cellule immunitarie coinvolte nella risposta a infezioni virali hanno prodotto livelli elevati di IL-6, una citochina pro-infiammatoria nota per il suo ruolo nell’innesco di processi infiammatori sistemici. Questa iperattività immunitaria, sebbene utile in condizioni normali per combattere le infezioni, può diventare dannosa se non regolata, contribuendo all’esaurimento fisico e mentale tipico della sindrome.
La stimolazione con enterotossina B dello Staphylococcus aureus e con patogeni inattivati come Candida albicans ha provocato nei pazienti un rilascio di citochine pro-infiammatorie significativamente superiore rispetto ai soggetti sani. Un dato particolarmente rilevante è emerso dal confronto tra i sessi: le risposte immunitarie più elevate sono state osservate nelle donne, soprattutto in quelle di età superiore ai 45 anni con livelli più bassi di estradiolo, l’ormone femminile che sembra avere un ruolo modulatore sull’infiammazione.
Secondo gli autori dello studio, questi risultati non solo confermano la natura biologica della Me/Cfs, ma suggeriscono anche nuovi potenziali bersagli farmacologici. “La nostra ricerca indica che la sindrome potrebbe essere il risultato di una risposta anomala all’infezione, che provoca infiammazione e danni cellulari”, spiegano i ricercatori. Non a caso, la Me/Cfs presenta molte somiglianze con il Long Covid, altra condizione post-virale che ha attirato l’attenzione della comunità scientifica negli ultimi anni.
La compromissione della produzione di energia cellulare osservata nei pazienti potrebbe spiegare l’estrema fatica e la difficoltà di recupero dopo sforzi anche minimi. Questo aspetto, insieme alla risposta immunitaria alterata, apre la strada a studi clinici mirati e allo sviluppo di terapie personalizzate, capaci di modulare l’infiammazione senza compromettere la capacità dell’organismo di difendersi dalle infezioni.
In un contesto ancora privo di diagnosi certe o trattamenti specifici per la Me/Cfs, lo studio della Columbia University rappresenta un passo importante verso la comprensione e la gestione di una sindrome che, per troppo tempo, è rimasta ai margini della ricerca. La speranza è che questi nuovi dati possano accelerare lo sviluppo di cure efficaci e restituire dignità e qualità di vita a milioni di pazienti invisibili.





