Gli appelli dei governatori della Lombardia e dell’Emilia Romagna. L’intervento del ministro
La mobilità sanitaria interregionale, ovvero il fenomeno per cui i cittadini si spostano da una regione all’altra per ricevere cure, sta raggiungendo livelli critici. Non si tratta più di una dinamica fisiologica, ma di un sintomo profondo di disuguaglianza strutturale. I presidenti delle Regioni accoglienti, quelle che tradizionalmente costituiscono un polo di attrazione, lanciano un allarme. Nel 2023, secondo i dati dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas), i ricoveri da fuori regione sono stati 670mila, generando un flusso di quasi 2,9 miliardi di euro in rimborsi. Per la prima volta, l’Emilia-Romagna ha superato la Lombardia in termini di attrattività, seguita dal Veneto, altra meta privilegiata per cure specialistiche. Ma dietro questi numeri si cela una pressione crescente sui sistemi sanitari, che rischiano di collassare.
“Serve un grande patto nazionale, perché questa situazione è insostenibile – ha dichiarato Michele de Pascale, governatore dell’Emilia-Romagna –. Le prestazioni ad alta complessità che offriamo sono un patrimonio della collettività, ma è aumentata anche la domanda di prestazioni di bassa complessità. Non è solo una questione economica: non esistono infermieri e professionisti infiniti per aumentare senza limiti l’offerta. Il sistema rischia di collassare”. Una preoccupazione condivisa anche dalla Lombardia, dove il presidente Attilio Fontana descrive una realtà ancora più critica: “Il nostro è un problema più pressante e più problematico. Lo stiamo dicendo da tempo, ma è chiaro che bisogna avere il coraggio di affrontare il tema della sanità con serietà”.
Il criterio della libera circolazione nel territorio nazionale, che in teoria dovrebbe garantire libertà di scelta e accesso alle eccellenze, si sta trasformando in una cartina di tornasole delle disuguaglianze territoriali. Il ministro Orazio Schillaci, intervenuto con una lettera al quotidiano Il Foglio, ha difeso il Servizio sanitario nazionale, rivendicando l’impegno per le case di comunità e i presidi territoriali, ma ha anche puntato il dito contro la gestione delle risorse: “È più facile dire che mancano sempre e solo i soldi. Certo che servono più risorse. Ma se poi vengono spese male, se vengono lasciate nei cassetti o dirottate a coprire buchi di bilancio, a che serve? E i dati della Corte dei Conti sui fondi inutilizzati dalle amministrazioni regionali sono lì a dimostrarlo”.
Il dibattito si intreccia con quello più ampio sulla riforma del sistema sanitario nazionale, sulla distribuzione delle competenze tra Stato e Regioni, e sulla necessità di garantire standard minimi di qualità ovunque. Perché se è vero che alcune Regioni hanno saputo costruire modelli virtuosi, è altrettanto vero che non possono farsi carico indefinitamente delle carenze altrui. La richiesta di un “patto nazionale” non è solo una proposta politica, ma una chiamata alla responsabilità collettiva. Perché la salute non può essere una questione di geografia, ma di equità. E perché ogni cittadino, ovunque si trovi, dovrebbe poter contare su cure adeguate senza dover attraversare lo Stivale. Il rischio, altrimenti, è che la mobilità sanitaria diventi non un’opportunità, ma una regola.
La lettera del ministro Schillaci
In un tempo dominato da narrazioni che lamentano il bicchiere mezzo vuoto, Orazio Schillaci sceglie di partire da un dato positivo per rilanciare il dibattito sulla sanità italiana: secondo l’Istat, nel 2023 i centenari residenti in Italia sono 23.500, con un incremento del 130% rispetto al 2009. Un dato che, secondo il ministro, rappresenta “un colpo al pessimismo di professione” e dimostra che “il nostro Servizio sanitario nazionale, tutto sommato, funziona. Non perfettamente, non uniformemente, ma funziona”. La riflessione, affidata a una lettera indirizzata al direttore del quotidiano Il Foglio, si trasforma in un appello alla “serietà”, intesa come capacità di affrontare i problemi ammettendo le responsabilità, senza indulgere in semplificazioni o autoassoluzioni.
“L’onestà intellettuale ci imporrebbe di partire da questo dato di realtà – scrive Schillaci – non per negare i problemi, ma per capire cosa abbiamo costruito e come preservarlo mentre cerchiamo di migliorarlo”. Qui non si tratta di tacere le criticità, anzi è bene analizzare il dato, a partire dalle disuguaglianze territoriali nell’accesso alle cure. “Un cittadino non può pagare con la salute il fatto di essere nato in Puglia piuttosto che in Veneto. Quando un napoletano sale su un treno per farsi operare a Brescia o a Padova non è mobilità sanitaria. È la sconfitta di un’intera nazione. È l’ammissione che lo Stato ha rinunciato a garantire l’uguaglianza dei diritti”. Schillaci punta il dito anche contro la gestione delle risorse, denunciando sprechi e distorsioni. “È più facile dire che mancano sempre e solo i soldi. Certo che servono più risorse. Ma se poi vengono spese male, se vengono lasciate nei cassetti o dirottate a coprire buchi di bilancio, a che serve? I dati della Corte dei Conti sui fondi inutilizzati dalle regioni sono lì a dimostrarlo”.
Dal ministro un cenno a chi manipola i dati per ottenere premi di risultato, mentre i cittadini attendono mesi, a volte, per un accertamento strumentale o una visita oncologica. “Truccare i dati delle prestazioni per mantenere parametri e premialità, manipolare le statistiche per prendere il bonus di fine anno, non è solo indegno. È disumano”. Sul fronte delle liste d’attesa, Schillaci rivendica l’efficacia del decreto in vigore da oltre un anno: “Chi lo applica sta invertendo la tendenza. Oltre mille ospedali hanno incrementato le performance del 20 per cento”. E rilancia il progetto di riforma basato sulla sanità territoriale, con case di comunità, presidi diffusi e tecnologie per la telemedicina. “Ecco la vera rivoluzione che ci aspetta e alla quale stiamo lavorando: medicina di prossimità, assistenza domiciliare integrata”. Il messaggio, alla fine, è chiaro: non basta denunciare le falle del sistema, serve un impegno condiviso per correggerle. E serve farlo con serietà, quella che non si limita alla retorica ma si traduce in azioni concrete, capaci di restituire fiducia ai cittadini e dignità al Servizio sanitario nazionale. Perché, come dimostra il dato sui centenari, l’Italia ha costruito qualcosa di prezioso. Ma per conservarlo, bisogna smettere di nascondersi dietro al catastrofismo e iniziare a fare i conti con la realtà.





