E’ evidente che le scelte delle terapie dovrebbero mirare ad obiettivi diversi a seconda della fase di malattia:
- orientate nella prima fase “Virale” prevalentemente al contenimento della crescita virale fino all’inizio della seconda (fase IIA in figura)
- mentre nella seconda (fase IIB in figura) e terza fase “Infiammatoria” orientate all’obiettivo di contenere l’infiammazione violenta e le sue conseguenze.
Non conoscendo questa evoluzione si comprende il perché, nelle fasi iniziali della pandemia, ci fossero molti pareri discordanti sugli effetti delle terapie, in particolare di quelle antivirali, che usate impropriamente nella fase “Infiammatoria” conclamata della malattia (fase3) non davano i risultati attesi, mentre in quella iniziale “virale” si. Allo stesso modo l’uso di farmaci che bloccano la cascata citochinica (verosimilmente anche il cortisone) dati in fase troppo precoce (fase1) insieme alle eparine, potrebbero avere più eventi avversi che benefici. Persino la somministrazione dell’ossigeno è sembrata avere effetti diversi, poiché ora sappiamo che nei pazienti con quadri di infiammazione e trombosi diffusi in fase avanzata a poco poteva servire anche l’ossigeno.
In questo scenario la gestione del clinico esperto Covid all’interno dei team di cure strutturati diventa fondamentale, essendo dimostrato che scelte terapeutiche tempestive possono migliorare l’esito clinico.
Spiegare COVID e scegliere le terapie appropriate ora sembra più semplice grazie alle conoscenze sviluppate e condivise, attraverso la pratica clinica e con il supporto degli anatomopatologi.
Ma l’Aifa chiede estrema prudenza in attesa dei risultati degli studi che a breve potrebbero portare evidenze e maggiori certezze.
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