Una strategia basata su cellule autologhe iPSC mira a rigenerare i neuroni dopaminergici e migliorare i sintomi
Un gruppo di ricercatori del Mass General Brigham sta avviando una sperimentazione clinica (Fase 1) per verificare la sicurezza e la fattibilità di un approccio terapeutico innovativo rivolto al morbo di Parkinson. La tecnica prevede il trapianto di cellule staminali autologhe, ovvero cellule prelevate dallo stesso paziente, riprogrammate in laboratorio per ritornare a uno stato pluripotente e successivamente differenziate in neuroni dopaminergici, con l’obiettivo di sostituire quelli danneggiati dalla malattia. Questo metodo permette di evitare il rischio di rigetto, eliminando la necessità di trattamenti immunosoppressivi richiesti nei trapianti con cellule provenienti da donatori. Tale protocollo, nato dal lavoro del Neuroregeneration Research Institute (NRI) del McLean Hospital, sfrutta cellule staminali pluripotenti indotte (iPSC) ricavate dal sangue del paziente stesso.
La sperimentazione coinvolge un totale di sei partecipanti, di cui tre già arruolati presso il Brigham and Women’s Hospital. I pazienti verranno monitorati per almeno 12 mesi, con l’intento di valutare la sicurezza dell’intervento e la possibile comparsa di effetti avversi. Successivamente, qualora i risultati siano positivi, è pianificato un studio di Fase 2A più esteso, orientato a studiare nel dettaglio l’efficacia clinica. L’approvazione della Food and Drug Administration (FDA) per lo studio di Fase 1 è arrivata nel 2023, e il primo trapianto su pazienti è stato realizzato a settembre 2024.
Il morbo di Parkinson è caratterizzato dalla degenerazione progressiva dei neuroni dopaminergici situati nel mesencefalo. Questa perdita incide sui livelli di dopamina, neurotrasmettitore cruciale per il controllo dei movimenti e di altre funzioni motorie. Attualmente, gran parte delle terapie disponibili si focalizza sul ripristino farmacologico della dopamina o sulla gestione dei sintomi. Tuttavia, queste strategie non sostituiscono le cellule perse e possono avere un’efficacia limitata nel tempo.
Il trapianto di neuroni dopaminergici derivati da cellule iPSC del paziente mira invece a colmare direttamente la lacuna generata dalla malattia, ripristinando la funzione dopaminergica in modo più stabile.
Il professor Ole Isacson, fondatore dell’NRI e docente presso la Harvard Medical School e il Mass General Brigham, studia da oltre 30 anni le terapie cellulari per il Parkinson. Le ricerche iniziali sulla rigenerazione neuronale mediante trapianto di cellule autologhe ebbero esordio con studi preclinici pubblicati nel 2002. Successivi esperimenti, risalenti al 2010, dimostrarono la potenziale validità dell’uso di neuroni dopaminergici derivati da cellule iPSC umane, mentre nel 2015, modelli animali di primati non umani affetti da Parkinson confermarono la sicurezza e i possibili benefici della tecnica.
Il nuovo studio di Fase 1, guidato dal dottor John Rolston presso il Brigham and Women’s Hospital, coinvolge anche i neurologi Michael Hayes e James Schumacher. L’obiettivo principale consiste nel garantire che la procedura sia ben tollerata dai pazienti e non generi complicazioni significative. Oltre all’osservazione clinica, gli specialisti impiegheranno metodologie di imaging e valutazioni motorie per rilevare eventuali mutamenti nella produzione di dopamina o nel controllo dei movimenti.
Il ricorso a cellule autologhe iPSC, derivate dal sangue del paziente, offre due vantaggi chiave:
- Compatibilità immunitaria: Poiché le cellule appartengono allo stesso individuo, il pericolo di rigetto immunitario viene notevolmente ridotto.
- Opportunità terapeutica di lungo termine: Se i neuroni trapiantati sopravvivono e integrano i circuiti cerebrali, potrebbero fornire un miglioramento sintomatico duraturo.
Allo stesso tempo, questo approccio presenta alcune sfide che devono essere affrontate. La produzione di neuroni dopaminergici a partire da iPSC autologhe è un processo complesso e costoso, che richiede tempi di laboratorio prolungati. Inoltre, la variabilità biologica rappresenta un altro fattore critico: elementi come l’età e il patrimonio genetico del paziente possono influenzare la qualità delle cellule ottenute e la loro capacità di differenziarsi correttamente. Un ulteriore aspetto da considerare riguarda la sicurezza a lungo termine del trattamento, poiché è fondamentale verificare che le cellule trapiantate non diano origine a teratomi, formazioni tumorali derivate da cellule staminali non completamente differenziate, che possono contenere diversi tipi di tessuto. Inoltre, è essenziale escludere il rischio di alterazioni nei circuiti cerebrali che potrebbero compromettere la funzionalità del sistema nervoso.
Se la Fase 1 evidenzierà un buon profilo di sicurezza, i ricercatori procederanno con lo studio di Fase 2A, includendo un numero superiore di partecipanti per valutare appieno l’efficacia clinica. Questo approccio rientra in un programma di ricerca sostenuto dal National Institute of Neurological Disorders and Stroke (NINDS), all’interno del Cooperative Research to Enable and Advance Translational Enterprises for Biologics (CREATE Bio).
Il progetto costituisce un modello di come la ricerca di base possa trasformarsi in applicazione clinica. Kerry Ressler, direttore scientifico del McLean Hospital, sottolinea l’importanza di simili iniziative, poiché favoriscono la collaborazione tra scienza di laboratorio e pratica medica, incoraggiando ulteriori progetti volti a sperimentare strategie cellulari contro altre patologie neurodegenerative.
Sebbene sia ancora prematuro trarre conclusioni definitive, la possibilità di sostituire i neuroni dopaminergici danneggiati con cellule geneticamente compatibili del paziente stesso offre un percorso alternativo rispetto alle terapie sintomatiche. I risultati che emergeranno dal monitoraggio a lungo termine dei pazienti forniranno elementi preziosi per stabilire se questa tecnica potrà diventare, in futuro, un’opzione terapeutica alla portata di un maggior numero di persone affette da patologie neurodegenerative.