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Derivato non allucinogeno dell’LSD: un nuovo approccio per la rigenerazione neuronale

Uno studio della University of California, Davis, svela un composto con potenziale terapeutico nella schizofrenia

Un gruppo di ricercatori della University of California, Davis ha annunciato lo sviluppo di una molecola derivata dall’LSD, denominata JRT, che mantiene l’azione neuroplastica del composto originario, riducendo però drasticamente i suoi effetti allucinogeni. Secondo i dati pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences, il JRT potrebbe offrire un nuovo percorso di trattamento per disturbi neuropsichiatrici complessi, tra cui la schizofrenia.

L’LSD è noto per la sua capacità di agire su diversi recettori serotoninergici e di provocare stati allucinatori. I ricercatori della UC Davis, guidati dal professor David E. Olson – direttore dell’Institute for Psychedelics and Neurotherapeutics – hanno realizzato una variazione chimica ridotta, invertendo due atomi nella struttura dell’LSD. Questa modifica ha cambiato il modo in cui la molecola interagisce con il cervello: ora si lega soprattutto ai recettori coinvolti nella crescita e nel recupero delle connessioni neurali, evitando quelli legati agli effetti allucinogeni.

Lo studio riporta che il derivato JRT conserva un potenziale neuroplastico utile ad aumentare le connessioni sinaptiche, ma non causa allucinazioni nei modelli preclinici, distinguendosi quindi dal farmaco progenitore. Questa combinazione di efficacia neuroprotettiva e assenza di alterazioni percettive rende il composto un candidato interessante per lo sviluppo di interventi terapeutici in diverse patologie che implicano perdita o disfunzione di sinapsi, come la schizofrenia.

Il team di Olson ha testato gli effetti del JRT su modelli murini (topi), concentrandosi sulla corteccia cerebrale, l’area del cervello coinvolta nel controllo dei movimenti e nelle funzioni cognitive complesse. La molecola ha mostrato di poter aumentare in modo significativo le connessioni tra i neuroni nel cervello: le spine dendritiche, che sono piccoli prolungamenti coinvolti nella trasmissione dei segnali, sono aumentate fino al 46%, mentre il numero di sinapsi è cresciuto del 18% nella corteccia prefrontale. Questo suggerisce una migliore comunicazione tra le cellule nervose, con possibili benefici per funzioni cognitive o motorie che risultano compromesse in alcune patologie.

In parallelo, i ricercatori hanno monitorato i possibili segnali di un effetto psichedelico – ad esempio, l’alterazione del comportamento o l’induzione di stati tipici delle sostanze allucinogene negli animali. Nonostante la somministrazione di JRT, non sono stati osservati comportamenti che suggerissero allucinazioni. Inoltre, non si è rilevata l’attivazione di geni associati alla psicosi, come invece riscontrabile con l’LSD.

Tra le ipotesi più significative avanzate dal professor Olson e dal suo gruppo, vi è l’efficacia del JRT nel contrastare i sintomi negativi e cognitivi della schizofrenia, tra cui l’anedonia (ossia l’incapacità di provare piacere) e i deficit di attenzione e memoria. Le terapie attuali per la schizofrenia – in particolare i farmaci antipsicotici – si concentrano principalmente sulla gestione dei sintomi positivi (come le allucinazioni uditive) e presentano limiti nel migliorare l’intera gamma sintomatologica, oltre a causare possibili effetti collaterali.

La molecola JRT, potenziando la rigenerazione e la plasticità delle reti neurali, potrebbe fornire un aiuto complementare per ripristinare il funzionamento di specifiche aree cerebrali compromesse nel paziente schizofrenico. Una prospettiva clinica del genere interessa anche altre malattie neurodegenerative, come l’Alzheimer, in cui la perdita di sinapsi incide profondamente sulle funzioni cognitive.

Come spesso accade con le innovazioni farmacologiche, uno degli ostacoli principali riguarda la biodisponibilità e il passaggio delle barriere protettive dell’organismo, ad esempio la barriera ematoencefalica. Dovrà inoltre essere valutata la sicurezza della molecola a lungo termine e la possibilità che si sviluppi una tolleranza o un uso improprio, anche se l’assenza di effetti allucinatori potrebbe ridurre l’attrattiva per un uso ricreativo.

Un’ulteriore considerazione riguarda la pianificazione di trial clinici sull’uomo. L’iter di sperimentazione richiederà la definizione di dosi efficaci, la valutazione degli effetti su popolazioni diverse (pazienti con schizofrenia, con disturbi da uso di sostanze o con altre patologie neurologiche) e l’integrazione dei risultati con i protocolli esistenti di cura.

Il derivato JRT prende il nome da Jeremy R. Tuck, lo studente di dottorato che ha sintetizzato la molecola in laboratorio. L’intero processo ha richiesto circa cinque anni di lavoro e, secondo Olson, rappresenta un modello di come le sostanze psichedeliche note possano venire modificate chimicamente per eliminare o ridurre alcune proprietà indesiderate, salvaguardando le potenzialità neuroplastiche. Il professore menziona anche il ruolo di Delix Therapeutics, azienda specializzata nello sviluppo di farmaci neuroplastici non allucinogeni, come partner per le prossime fasi di ricerca e sviluppo.

Se i dati preclinici saranno confermati da sperimentazioni cliniche su pazienti, l’approccio potrebbe delineare una nuova categoria di terapie pro-sinaptiche non allucinogene per disturbi psichiatrici. Questo approccio potrebbe rivelarsi particolarmente utile per i pazienti che non rispondono ai trattamenti antipsicotici convenzionali o che ne subiscono effetti collaterali difficili da tollerare.

La creazione del composto JRT mostra come sia possibile intervenire in modo mirato sulla struttura di molecole psichedeliche già note, ottenendo principi attivi con effetti neuroprotettivi o capaci di stimolare la neuroplasticità, ma privi di proprietà allucinogene.        I risultati pubblicati su Proceedings of the National Academy of Sciences illustrano come questa strategia possa dare slancio a nuove terapie farmacologiche per la schizofrenia e altre patologie neuropsichiatriche. Restano da affrontare gli aspetti di sicurezza e l’ottimizzazione della somministrazione, ma i dati preclinici mostrano un potenziale interessante per un trattamento più selettivo, meno invasivo e in grado di supportare la rigenerazione dei circuiti cerebrali compromessi.

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