I principali fattori che rischiano di far implodere la sanità pubblica italiana? Ad una analisi condotta con gli strumenti attualmente agiti di economia sanitaria sarebbero in primo luogo il persistente sottofinanziamento del Servizio sanitario nazionale e poi la carenza di personale. Ad usare una visione più laterale del problema la prospettiva però cambia e spiegheremo i perché. Partiamo dalle risorse: nonostante le risorse aggiuntive stanziate con le ultime leggi di Bilancio, di fatto sostanzialmente assorbite dagli incrementi contrattuali del personale dipendente senza andare ad incrementare la capacità produttiva degli Enti del SSN, nel triennio 2024/2026 si mantiene pari al 6,4% del Pil (Documento Programmatico di Bilancio 2024, 16 ottobre 2023, pag. 12), è praticamente inchiodato allo stesso livello del 2019, ultimo anno pre-Covid. Il confronto con i nostri principali partner europei è impietoso: nel 2019, la Germania ha destinato il 9,9% del PIL al finanziamento della spesa sanitaria pubblica; la Francia il 9,3%; il Regno Unito l’8% (dati OCSE). Con il 6,4% del PIL, nel 2019 la spesa pubblica pro-capite nel nostro Paese è stata pari a 1.921 euro, a fronte di 4.108 euro in Germania, di 3.355 euro in Francia e di 3.017 nel Regno Unito. Se volessimo raggiungere i livelli del Regno Unito, occorrerebbero per il nostro SSN circa 20 mld di euro in più l’anno; mentre per arrivare ai livelli di Germania e Francia ce ne vorrebbero tra i 40 e i 50.
C’è poi al secondo posto la questione irrisolta della carenza di personale: rispetto alla media delle dotazioni standard registrate a livello europeo, al nostro SSN mancano attualmente circa 70.000 infermieri e 20.000 medici (dati Eurostat). Se poi si considerano anche i fabbisogni legati alle nuove strutture territoriali previste dal PNRR (Case e Ospedali di Comunità), ci vorrebbero ulteriori 20.000 infermieri. Ad oggi, nel nostro Paese ci sono 6,2 infermieri per mille abitanti, contro una media europea di 8,8. Per quanto riguarda il numero di medici rapportato agli abitanti, l’Italia figura al 14° posto in Europa dopo Paesi come, tra gli altri, Grecia, Portogallo, Austria, Germania, Spagna, Finlandia e Svezia. Con l’aggravante che siamo il Paese con la più alta percentuale di medici di età pari o superiore a cinquantacinque anni: 55,2% (seguiti dalla Bulgaria con il 53,6%).
Probabilmente, però, per evidenti errori di programmazione, il nostro sistema formativo non è in grado di sopperire nel breve a tale fabbisogno di personale, per tutta una serie di vincoli e problemi che si sono stratificati nel tempo, in termini di accesso ai corsi di Medicina e Chirurgia e di Scienze infermieristiche, nonché alle Scuole di Specializzazione soprattutto per talune discipline fondamentali, prima tra tutte la Medicina di Emergenza e Urgenza senza contare il contagio di questi nodi ad altre aree formativa delle professioni sanitarie tecniche della Riabilitazione e prevenzione.
Permangono poi squilibri territoriali principalmente nel Mezzogiorno, dove il sottofinanziamento del SSN e la carenza di personale assumono i connotati di una vera e propria emergenza atteso che l’incidenza di tali fattori non è equamente ripartita tra le diverse parti del Paese. È noto infatti, storicamente, che i criteri di riparto del fondo sanitario nazionale, basati per anni sul solo criterio di pesatura per età anagrafica, hanno penalizzato le regioni relativamente più giovani, che poi si ritrovano anche ad essere quelle con la maggiore deprivazione socio-economica ed i più elevati tassi di mortalità precoce. Ciò ha finito per acuire i divari territoriali già ampiamente preesistenti alla riforma del Titolo V della Costituzione. Le regioni che negli anni hanno ricevuto un finanziamento pro-capite di gran lunga inferiore rispetto alla media nazionale sono state, nell’ordine, la Campania (la più penalizzata), la Sicilia, la Puglia e la Calabria. Tutte le altre regioni del Centro-Nord, invece, si collocano, più o meno, intorno al dato medio nazionale.
Soltanto a decorrere dal 2023, e solo a seguito di una battaglia anche giudiziaria intrapresa in perfetta solitudine dalla Regione Campania nei confronti del Ministero della Salute, sono stati introdotti, in aggiunta alla pesatura per età, anche i criteri del tasso di mortalità precoce e della deprivazione socio-economica, nonostante la normativa di riferimento imponesse un aggiornamento dei criteri già a partire dal 2015. Ma si tratta di un’innovazione ancora troppo timida e parziale, che dovrà necessariamente essere completata e rafforzata nei prossimi anni, atteso che nonostante l’applicazione dei nuovi criteri di riparto (sicuramente più equi rispetto al passato), la Campania ad esempio rimane ancora la regione con il finanziamento pro-capite più basso.
Anche la carenza di personale, che – come si è detto – connota in generale l’intero SSN, non incide in misura uniforme nei diversi sistemi regionali, che invece presentano diverse dotazioni di personale occupato, in rapporto alla popolazione residente. Squilibrio che permane anche se si considera il contingente di personale impiegato nelle strutture sanitarie private accreditate che, come è noto, assumono un peso relativo differenziato nei diversi sistemi regionali. Tale fenomeno diventa quanto meno concausa delle diverse performance, sia quantitative che qualitative, che si registrano nei diversi sistemi sanitari regionali.
Negli anni, il tetto normativo imposto alla spesa del personale (2004 meno l’1,4% per le regioni in Piano di rientro mentre per gli altri ancorata alla dotazione del 2019 ed il sottofinanziamento abbiamo dato per scontato e strutturale del SSN non hanno consentito di poter colmare questo divario, che anzi ha assunto dimensioni sempre più ingenti.
Stando alla situazione fotografata al 31.12.2020 (elaborazione su dati del Ministero della Salute), le regioni che si collocano al di sotto del dato medio nazionale sono: Abruzzo; Campania; Puglia; Basilicata; Calabria; Sicilia. Tutte regioni del Mezzogiorno.
Anche in questo caso la Campania presenta il dato più basso (pur considerando il contingente di personale occupato nel settore privato accreditato): 10,91 occupati ogni mille abitanti, contro una media nazionale di 15,13 ed un picco di 18,34 della Regione Emilia-Romagna, tra le regioni a statuto ordinario.
Per riportare queste sei regioni alla dotazione media nazionale in termini di occupati per ogni mille abitanti, occorrerebbe assumere circa 45.000 unità (sempre che ce ne siano nel mercato del lavoro). Di queste 45.000 unità, solo la Campania dovrebbe occuparne circa 24.000 (il 55%), per raggiungere il dato medio nazionale.
Per finanziare un piano straordinario di assunzioni per finalità perequative ci vorrebbero 4,5 miliardi a regime. Sarebbe un modo equo per recuperare, attraverso le assunzioni di personale, le ingenti risorse che negli anni pregressi sono state sottratte ai SSR delle regioni del Mezzogiorno.
La minore dotazione in termini di risorse finanziarie e di risorse umane incide, inevitabilmente, anche nella diversa disponibilità di posti letto ospedalieri (sia pubblici sia privati accreditati) in rapporto agli abitanti. Rispetto ad uno standard nazionale previsto dal DM 70/2015 di 3,7 posti letto per mille abitanti, di cui 0,7 per la post-acuzie, la situazione effettiva al 31.12.2019 dei diversi sistemi regionali è la seguente (dati Ministero della Salute): la media nazionale è pari a 3,47 posti letto ogni mille abitanti, ma ancora una volta si assiste ad una netta spaccatura tra Nord e Mezzogiorno, atteso che l’Emilia-Romagna presenta un dato pari a 3,88, il Piemonte 3,79, la Lombardia 3,76, il Veneto 3,56, a fronte di 2,88 posti letto della Calabria, di 2,96 della Campania e di 3,08 della Puglia, solo per citare alcune regioni.
Il grave e cronico squilibrio territoriale nella disponibilità dei fattori della produzione dei diversi sistemi sanitari regionali sembra incidere, dunque, inevitabilmente, sull’indicatore della speranza di vita alla nascita (forse l’indicatore più importante per misurare il grado di salute di una comunità): stando agli ultimi dati relativi al 2022 (ISTAT-BES), rispetto ad un valore nazionale pari a 82,6 anni, il Nord Italia si colloca al di sopra di 83, mentre il Mezzogiorno registra un valore di 81,7, con il dato della Campania più basso di tutte le altre regioni, pari a 80,9.
Inutile ricordare che la letteratura scientifica internazionale è uniformemente concorde nel riconoscere l’esistenza di una forte correlazione tra finanziamento dei servizi sanitari e aspettativa di vita. In questo senso, il caso italiano non fa eccezione. L’esistenza di una differenza di più di due anni nella speranza di vita alla nascita tra territori di una stessa Nazione dovrebbe imporre, quale obiettivo prioritario assoluto per il Governo nazionale, di mettere in campo azioni concrete volte alla riduzione di un elemento di disuguaglianza così intollerabile.
Conseguenza inevitabile dei divari sopra evidenziati è, pure, la dinamica dei flussi di mobilità sanitaria tra le regioni. Dal 2008 al 2022 il valore della mobilità sanitaria, cioè delle prestazioni effettuate a residenti di regioni diverse da quelle che hanno erogato la prestazione è cresciuto del 20% (con la sola eccezione degli anni 2020 e 2021, che hanno registrato una riduzione a causa del Covid). In sostanza, è cresciuto alla stregua del fondo sanitario, il che significa che il fenomeno è strutturale e non episodico e solo con azioni forti da assumere dal livello centrale di governo si può invertire la tendenza.
Nel 2022, il valore complessivo della mobilità sanitaria è ritornato ai livelli del 2019: circa 4,3 mld di euro, come se una piccola regione da 750.000/1.000.000 di abitanti emigrasse ogni anno per farsi curare altrove. In termini di spesa pro-capite netta, la regione che spende maggiormente per la mobilità sanitaria è la Calabria, con 147 euro per abitante (pari al 7,5% del fondo sanitario regionale), seguita dalla Basilicata, con 128 euro (pari al 6,4% del fondo), dalla Valle d’Aosta, con 87 euro (pari al 4,4% del fondo), dall’Abruzzo, con 77 euro (pari al 3,8% del fondo), dalla Liguria, con 63 euro (pari al 2,9% del fondo), dalla Campania, con 49 euro (pari al 2,5% del fondo), dalla Sardegna, con 46 euro (pari al 2,3% del fondo), e dalla Puglia con 45 euro (pari al 2,3% del fondo).
Viceversa, le regioni che ricevono, sempre in termini di valori pro-capite, maggiori risorse dal saldo attivo di mobilità sono: il Molise (con 105 euro), l’Emilia-Romagna (92 euro), la Lombardia (55 euro) ed il Veneto (36 euro). In prevalenza, comunque, la mobilità avviene verso le strutture private accreditate delle regioni del Nord.
Altra fonte di divario tra le regioni scaturisce dall’applicazione della normativa di riferimento dei Piani di rientro dai disavanzi sanitari. Attualmente, sono in Piano di rientro le regioni: Lazio; Abruzzo; Molise; Campania; Puglia; Calabria; Sicilia. Molte di queste regioni sono in Piano di rientro dalla seconda metà degli anni 2000. Alcune sono state anche commissariate per più di un decennio e Molise e Calabria sono ancora attualmente commissariate.
La normativa di riferimento delle regioni in Piano di rientro, al di là della necessaria strumentazione volta al contenimento della spesa ed al rientro dai disavanzi pregressi, se ha consentito di pareggiare i conti e solo in alcuni casi, ha però penalizzato la qualità delle cure.
Che fare dunque? Come abbiamo premesso non è solo una questione di fondi e di personale se regioni meno dotate finanziariamente e anche come personale stanno per presentare i dati che dimostrano l’azzeramento delle liste di attesa e se regioni come appunto la Campania sono in realtà, ancorché ancora nella fase di fuoriuscita dal piano di rientro dal deficit dal 2013 in pareggio di bilancio. Evidentemente c’è anche una questione, centrale, che riguarda la programmazione. E allora a guardare bene il quadro generale l’incremento ulteriore di risorse da poggiare sulla torta nazionale dei finanziamenti rispetto al Pil non è più la strada giusta in assenza di una crescita globale dell’economia. L’unica strada percorribile è invece riformare il sistema, riequilibrare l’offerta tra ospedale e territorio a fronte del cambiamento epocale in corso dei fabbisogni di salute di una popolazione sempre più anziana, puntare sulla prevenzione, sull’invecchiamento attivo, sugli investimenti in nuove cure innovative lasciando che una fetta di quello che oggi è a basso costo venga immesso in quei 40 miliardi di spesa privata che già oggi connotano un sistema sempre meno capace di dare tutto a tutti e che si configura invece come un sistema misto. Solo così cure rivoluzionarie come le Car-t potranno raggiungere chi effettivamente può giovarsi di tali strategie terapeutiche con grandissimi vantaggi. Allo stato ogni rivendicazione senza una profonda rivisitazione organizzativa, compresa la rivalutazione dell’utilità di Case e ospedali di comunità così come finora concepiti appare fuori bersaglio, basata su presupposti più ideologici che pratici, comunque non utili alla popolazione italiane che cerca cure migliori.