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Infezioni da Clostridium difficile


Allarme negli Usa in Italia il batterio più diffuso nelle corsie ospedaliere.

L’allarme giunge dagli Stati Uniti: un batterio invade gli ospedali. Uno studio svela un’epidemia nascosta che si diffonde in maniera molto più intensa di quanto si pensasse. Il microbo resiste sulle superfici per settimane. Di cosa di tratta? Bisogna preoccuparsi? Le infezioni correlate all’assistenza, lo sappiamo, sono una minaccia seria per i pazienti fragili ricoverati in ospedale ma la consideriamo un’evenienza ancora controllabile e invece quest’epidemia nosocomiale che viaggia indisturbata da una superficie all’altra in maniera veloce ed efficiente rievoca lo spetto delle malattie infettive trasmissibili. Questa volte non è un virus né una pandemia a minacciare i pazienti fragili ma un batterio che prolifera negli ambienti ospedalieri fortificato dal massiccio uso di antibiotici che si fa in questi luoghi che lo rendono temibile per tutti.
Parliamo del Clostridium difficile, una vecchia conoscenza responsabile di una delle infezioni nosocomiali più comuni e contagiose. Causa diarrea, dolori addominali e febbre che sembrerebbero sintomi tutto sommato banali e che invece – in chi sconta una compromissione immunitaria per patologie concomitanti, per l’età e lo stato debilitato che quasi sempre accompagna un ricovero ospedaliero – risulta letale in circa il 6% dei casi.
Questo negli Usa. E in Europa, in Italia? Di certo c’è che la malattia da Clostridium difficile è altamente contagiosa ma in precedenti ricerche condotte oltreoceano la trasmissione diretta da paziente a paziente sembrava verificarsi raramente. Qualcosa è dunque cambiato: ora, tracciando il batterio nell’ambiente ospedaliero, anziché solo sui pazienti, è emerso “un movimento di batteri nelle strutture ospedaliere in precedenza non rilevato”. Gli studiosi hanno analizzato materiale prelevato da quasi 200 pazienti in 2 unità di terapia intensiva, nonché migliaia di campioni raccolti dalle superfici delle stanze di ospedale e dalle mani degli operatori sanitari. Attraverso il sequenziamento genetico hanno quindi mappato con precisione il tragitto dei C. diff, i loro spostamenti e la loro provenienza. I batteri sono stati trovati nel 10% dei ricoverati in terapia intensiva, sia sul corpo dei malati sia nell’ambiente circostante all’interno della stanza. Nella maggior parte dei casi i ceppi individuati erano geneticamente identici a quelli rinvenuti in un altro paziente o in un’altra stanza a indicare che i batteri provenivano dallo stesso paziente e non da 2 fonti diverse.
I ricercatori hanno svelato “casi di potenziale trasmissione che non sarebbero stati individuati con altri metodi”. Scoprendo che “per più della metà dei potenziali eventi di trasmissione i 2 pazienti coinvolti non erano mai stati in ospedale nello stesso momento” e che tra il ricovero di uno e quello dell’altro erano trascorse “a volte settimane”. Un “paradosso” spiegabile solo da una “eccezionale resistenza del batterio.
In effetti il Clostridium difficile può sopravvivere a lungo fuori dal corpo resistendo a comuni misure antibatteriche come detergenti a base di alcol. Così i batteri di una persona potrebbero essere trasferiti inavvertitamente su superfici di una stanza diversa, dove potrebbero restare in attesa di un altro paziente senza essere rilevati”. I ricercatori precisano che non tutti i C. diff causano malattie e che la maggior parte della diffusione osservata ha coinvolto varietà batteriche innocue. Tuttavia, aggiungono che la diffusione di C. diff non patogeno suggerisce che una trasmissione simile di C. diff patogeno potrebbe non essere rilevata.

Tutto depone per la necessità di adottare maggiori precauzioni, per prevenire la diffusione negli ospedali di questo batterio invasore e della malattia che provoca. L’uso di dispositivi di protezione individuale come guanti e camici, nonché la pratica di una rigorosa igiene delle mani, sono fondamentali. Queste sono le misure che possono aiutare a interrompere questo tipo di trasmissione invisibile.
“Già precedentemente, in un recente studio pubblicato sull’American Journal of Infection Control nel 2022 – spiega Alessandro Perrella direttore UOC malattie infettive emergenti del Cotugno di Napoli – ha dimostrato che i pazienti ricoverati in stanze precedentemente occupate da persone infette da Clostridioides difficile (CDI) hanno un rischio significativamente più alto di sviluppare la stessa infezione, anche settimane o mesi dopo che il paziente infetto è stato dimesso. Il Clostridium difficile è un batterio particolarmente resistente che può causare gravi infezioni intestinali, soprattutto in soggetti debilitati o in terapia antibiotica. La sua pericolosità deriva dalla capacità di produrre spore altamente persistenti nell’ambiente ospedaliero, dove possono sopravvivere per mesi su superfici come letti, comodini, bagni e attrezzature mediche.
Un dato particolarmente rilevante è che ogni giorno aggiuntivo trascorso in una stanza precedentemente contaminata aumentava il rischio di CDI del 4–5%, e lo stesso incremento era osservato anche in relazione alla cosiddetta pressione di colonizzazione, cioè il numero di altri pazienti con CDI presenti nello stesso reparto. In questo caso, ogni giorno di esposizione aumentava il rischio del 3,6%. Nonostante gli ospedali coinvolti adottino protocolli avanzati di disinfezione, incluso l’uso di candeggina, Oxycide e disinfezione con luce UV, le spore del C. difficile si sono dimostrate capaci di superare le barriere standard di sanificazione”.

Uno studio che rafforza l’evidenza che l’ambiente ospedaliero, e in particolare la storia clinica recente della stanza, sia un fattore di rischio non trascurabile che può influenzare in modo significativo il rischio di infezione per i nuovi ricoverati. Considerare questo aspetto nei protocolli di controllo delle infezioni potrebbe rappresentare un passo in avanti importante nella prevenzione della CDI e nella sicurezza dei pazienti.

“Clostridiodies difficile è un bacillo anaerobio, gram-positivo, sporigeno e tossigeno, a trasmissione oro-fecale. Nell’ultimo decennio in Italia e in Europa sono aumentati i casi di infezioni correlate all’assistenza dovute a CD – avverte Maria Triassi, epidemiologa, docente di Igiene presidente nazionale della Società italiana di Sanità Pubblica e digitale (SISPeD) e presidente della omonima Fondazione – l’età avanzata è uno dei più importanti fattori di rischio per infezione da CD e anche la durata dell’ospedalizzazione. Diversi studi hanno evidenziato che l’implementazione di un programma di stewardship antimicrobica riduce del 30-50% l’incidenza delle ICD (infezioni da clostridium difficile). I cambiamenti epidemiologici della CDI sono stati associati all’emergenza di ceppi con caratteristiche di elevata virulenza e resistenti a molte classi di antibiotici. Gli ultimi dati pubblicati dall’ECDC hanno evidenziato che ICA più frequenti sono le infezioni respiratorie (29,3% del totale), infezioni urinarie (19,2%), infezioni del sito chirurgico (16,1%), batteriemie (11,9%) e infezioni gastrointestinali (9,5%), di cui il 62,1% causate da Clostridioides difficile (C. difficile). In Italia – conclude Triassi – i sistemi di sorveglianza per le infezioni da C. difficile e da MRSA sono in corso di implementazione”. Lavaggio corretto delle mani, riduzione di procedure diagnostico-terapeutiche inappropriate, uso appropriato di antibiotici e riduzione dei tempi di ospedalizzazione sono gli interventi consigliati per ridurre le Ica dovute anche a CD.

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