La biopsia liquida rileva segnali di presenza di tumori così piccoli da non essere visibili con l’imaging. Ci sono i pro: se il risultato è positivo si sta più attenti e si è preparati a intervenire. Ma anche i contro: si è costretti a convivere con una spada di Damocle.
La diagnosi arriva inaspettata: la prima colonscopia della sua vita, a 45 anni, rileva un tumore al colon metastatico. Tanto le metastasi quanto il tumore sono fortunatamente asportabili. L’intervento chirurgico riesce perfettamente e dopo sei mesi di chemioterapia non c’è più traccia della malattia. Per i successivi due anni gli esami di monitoraggio con le tecniche di imaging danno esito negativo. Da lì in poi la storia di Jesse, raccontata da sua moglie Mara Buchbinder su StatNews, descrive le vicissitudini di una nuova categoria di pazienti oncologici: “i pazienti in attesa”, persone che non possono definirsi né malate, né sane, perennemente minacciate dalla spada di Damocle di una recidiva imminente.
Jesse e sua moglie sapevano bene che due anni non sarebbero bastati per poter celebrare la guarigione, ma erano sufficienti per poter gioire del traguardo della sopravvivenza a lungo termine che aumenta le probabilità di superare definitivamente la malattia. Insomma, Jesse poteva considerarsi un fortunato tra gli sfortunati. Poi però è arrivato il risultato della biopsia liquida, effettuata la scorsa estate, che ha trasformato Jess in “un paziente in attesa”.
Questo tipo di esame, come si legge sul sito di uno dei test più usati in Usa, è «progettato su misura per ciascun paziente per aiutare a identificare una recidiva prima rispetto agli strumenti di cura standard». Il che sembra un bene, e indubbiamente lo è. C’è però il rovescio della medaglia. L’analisi consiste nell’individuare in un campione di sangue del paziente il cosiddetto Dna tumorale circolante, un risultato positivo è indicativo di una malattia residua minima, ossia di un accumulo di cellule tumorali troppo piccole per essere rilevate dall’imaging.
Il risultato di Jess è positivo. Cosa fare? Non esiste uno standard di cura per i pazienti affetti da cancro del colon con risultati positivi alla biopsia liquida senza nessuna evidenza radiologica della malattia. Alcuni medici somministrano una chemioterapia a scopo profilattico, ma la maggior parte degli oncologi, compreso quello che aveva in cura Jesse, non prescrive alcun trattamento finché non appare qualcosa sugli schermi dei macchinari di diagnostica per immagini. L’unica cosa da fare è, quindi, aspettare. Jesse passa così immediatamente di categoria: da sopravvissuto al cancro diventa paziente in attesa. «Quando una persona diventa un paziente in attesa, il suo mondo viene irrevocabilmente alterato. Ogni paziente in attesa rappresenta una vita interrotta, una beata innocenza perduta», commenta Mara Buchbinder moglie di Jess, antropologo medico alla University of North Carolina at Chapel Hill, che, per ironia della sorte aveva coniato lei stessa quella definizione tredici anni prima quando era impegnata nello studio dell’impatto delle nuove analisi genetiche sui pazienti e i caregiver.
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