Aggressioni in aumento, sindacati e ordini professionali chiedono misure concrete. Fnomceo propone l’inserimento di figure di mediazione nei reparti, Anaao-Assomed punta su telecamere e leggi più severe
La violenza contro il personale sanitario non è più un’emergenza episodica, ma ricorrente, e si conferma una tendenza inquietante: medici, infermieri e operatori sociosanitari continuano a essere bersaglio di aggressioni fisiche e verbali in tutta Italia. Un fenomeno che non risparmia nessuna regione e che si consuma soprattutto nel pronto soccorso, un luogo dove la tensione, la paura e l’attesa spesso degenerano in atti sopra le righe.
Secondo la Uil-Fpl, tra gli ultimi episodi si contano infermieri aggrediti a Torino e Mantova, un operatore del 118 preso a pugni a Trento, violenze registrate a Trieste, Genova e Bari. “Questo è un bollettino di guerra, abbiamo avuto qualcosa come 22mila operatori sanitari e sociosanitari vittime di aggressioni l’anno scorso, ma il numero reale è molto più alto”, denuncia Rita Longobardi, segretaria nazionale del sindacato. “Tante violenze non vengono denunciate, per paura di ritorsioni o perché ormai, purtroppo, insulti e minacce vengono interiorizzati come parte del lavoro”.
La richiesta è unanime: servono misure urgenti e strutturali. I sindacati e gli ordini professionali chiedono la piena applicazione della legge che prevede l’arresto in flagranza in caso di ferimento, oggi non del tutto operativa per la mancanza di strumenti come le telecamere. “Servono prove, anche video, e non tutti gli ospedali dispongono di telecamere”, spiega Pierino Di Silverio, segretario nazionale del sindacato dei medici ospedalieri Anaao-Assomed. “Se diventasse legge, includendo anche l’obbligo di dotarsi di telecamere, la normativa potrebbe diventare un deterrente concreto”. Il sindacato propone inoltre di elevare a rango normativo la raccomandazione 8/2007 del Ministero della Salute, che prevede politiche di tolleranza zero e un coordinamento più stretto con le forze di polizia. A settembre partirà una campagna informativa, mentre a dicembre sarà presentato un libro bianco con i dati raccolti negli ospedali.
Ma la prevenzione non può essere solo tecnologica o repressiva. Serve anche un cambiamento culturale e organizzativo. Filippo Anelli, presidente della Federazione nazionale degli ordini dei medici (Fnomceo), rilancia la proposta di introdurre figure di mediazione: “Dovrebbero esserci figure dedicate che facciano da anello tra medici e familiari. Spesso le aggressioni nascono dall’incomprensione e dalla mancanza di informazioni”. In Puglia, una sperimentazione è già in corso in alcuni ospedali, dove infermieri-mediatori si occupano di comunicare con i familiari e spiegare cosa sta avvenendo. “Credo possa essere una figura da implementare e potrebbe anche non avere un profilo strettamente sanitario”, aggiunge Anelli.
Anche Guido Quici, presidente della Federazione dei medici Cimo-Fesmed, sottolinea il ruolo cruciale della comunicazione: “Pesa la carenza di comunicazione con i familiari dei pazienti, aggravata dalla scarsità di personale. Spesso i medici devono scegliere tra salvare una vita o parlare con i parenti, con conseguenti reazioni di rabbia”. La sua proposta è riorganizzare i turni di lavoro in modo da consentire ai medici di dedicare tempo esclusivamente al dialogo con i familiari. Quici sostiene inoltre la necessità di aggiornare e implementare la raccomandazione n.8 del 2007 e di introdurre un corso di formazione obbligatorio sul tema per tutti i dipendenti del Servizio sanitario nazionale.
La richiesta di presidi fissi di polizia nei pronto soccorso, strumenti concreti di prevenzione e un rinnovato rispetto verso chi esercita la professione non è più solo una rivendicazione sindacale: è una necessità urgente per garantire la sicurezza di chi ogni giorno si prende cura degli altri. In un sistema sanitario già provato da carenze strutturali e pressioni crescenti, proteggere chi cura è il primo passo per curare il sistema stesso.





