Se il figlio non arriva dopo almeno 12 mesi di rapporti liberi, senza uso di contraccettivi, e a maggior ragione se siamo a conoscenza di un problema di salute che può influenzare la fertilità di coppia, è necessario sottoporsi a un iter diagnostico per capire se c’è un problema di infertilità e definire la terapia più adeguata.
La fecondità varia in base all’età. Questo conta sia per la donna sopra i 35 anni, sia per l’uomo sopra i 42 anni (non solo per il peggioramento del quadro seminale, quanto per il peggioramento delle caratteristiche delle potenzialità fecondanti del liquido seminale). Ora: se il figlio non arriva dopo almeno 12 mesi di rapporti liberi, senza uso di contraccettivi, e a maggior ragione se siamo a conoscenza di un problema di salute che può influenzare la fertilità di coppia, è necessario sottoporsi a un iter diagnostico per capire se c’è un problema di infertilità e definire la terapia più adeguata.
Tre gli esami fondamentali
“Una volta la diagnosi era il fulcro della riproduzione assistita, perché non avevamo molte terapie a disposizione”, spiega Mario Mignini Renzini, responsabile del Centro di PMA della Casa di Cura La Madonnina di Milano e professore presso la Scuola di Specializzazione in Ginecologia e Ostetricia dell’Università di Milano. “Per fortuna oggi la situazione è cambiata e l’iter diagnostico è molto più snello. Esso consiste, per quanto riguarda l’uomo, in un’analisi del liquido seminale, associata a una visita uro-andrologica per valutare la salute dell’apparato genitale maschile. Per quanto riguarda la donna, prevede una visita ginecologica con un’ecografia per vedere se ci sono problematiche di tipo morfologico (fibromi all’utero, cisti ovariche, malformazioni uterine, valutazione della pervietà tubarica etc.) e poi dei dosaggi ormonali per determinare la riserva ovarica. Questi 3 esami, insieme alla raccolta dettagliata della storia anamnestica della coppia, consentono di inquadrare la questione e comprendere se c’è un problema”.
L’inseminazione
Se il problema sussiste, si può ricorrere alle tecniche di riproduzione assistita che, in linea di massima, sono di due tipi. “Una è quella che prevede la facilitazione dell’incontro fra spermatozoi e ovociti, ovvero l’inseminazione”, precisa l’esperto. “In questa metodica si fa un monitoraggio dell’ovulazione e, al momento giusto, gli spermatozoi selezionati del marito con un piccolo catetere vengono messi sul fondo dell’utero in prossimità delle tube, per facilitare l’incontro fra gli spermatozoi e l’ovocita normalmente ovulato. Si tratta di una metodica antichissima (il primo caso risale al 1750), che oggi è andata via via diminuendo come numero di prestazioni eseguite”. La sua efficacia non supera il 10-12% per ciclo.
La Fivet e la ICSI
“Poi c’è il gruppo delle tecniche più complesse nelle quali la fecondazione avviene in laboratorio”, continua il professor Mignini Renzini. “Oggi, in linea di massima, sono di due tipi: la Fivet (fecondazione in vitro) e ICSI (iniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo). La differenza tra le due è solo di laboratorio, dal punto di vista clinico non cambia molto. In queste tecniche c’è una prima fase di 10-12 giorni in cui la paziente assume una terapia farmacologica per l’induzione dell’ovulazione. Successivamente, si prelevano gli ovociti e si fertilizzano con il campione seminale del marito. A questo punto, dopo 2 o 5 giorni, l’eventuale embrione ottenuto viene rimesso all’interno dell’utero della donna. Questa tecnica ha un’efficacia del 30-40% per ciclo di terapia. Per le coppie che non possono concepire utilizzando i propri gameti, è possibile ricorrere alla fecondazione cosiddetta eterologa, con donazione dei gameti femminili, maschili o entrambi”.
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