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Tumore del fegato, il male silenzioso da combattere in rete

I clinici e gestione del tumore del fegato: “Precocità e unitarietà della presa in carico possono allungare la sopravvivenza e migliorare la qualità di vita del pazienteA isorisorse non siamo più in grado di farlo, dobbiamo chiedere un aiutoDevono aumentare competenze e personale”.

Il tumore del fegato è stato anche chiamato “tumore silenzioso” perché, soprattutto nelle fasi iniziali non dà alcun segno ma quando la malattia si diffonde iniziano a comparire sintomi peraltro poco specifici, che possono presentarsi anche in malattie del tutto diverse. Di qui le difficoltà diagnostiche e una serie di attenzioni considerate essenziali nel percorso di cura del paziente con tumore del fegato: il monitoraggio, la sorveglianza e una efficace comunicazione per evitare ritardi diagnostici. I clinici si appellano all’importanza dello screening nei pazienti epatopatici, all’attenzione sui fattori di rischio per lo sviluppo di epatopatia nella popolazione generale e all’opera di sensibilizzazione tra specialisti nella sorveglianza dei pazienti per garantire diagnosi precoce e unitarietà della presa in carico per un allungamento della sopravvivenza e un miglioramento della qualità di vita.

Le malattie croniche del fegato rappresentano un’emergenza epidemiologica e clinica a livello mondiale e nazionale. I dati del Global Burden of Diseases indicano che nel 2016, nel mondo, sono decedute 828.940 persone per tumore del fegato; lo stesso report stima per il 2040 un incremento del numero di decessi per carcinoma epatico del 100%. Le stime riferite all’Italia indicano che ogni anno siano diagnosticati circa 8.900 tumori primari del fegato negli uomini e 4.000 nelle donne (Registro tumori italiano 2017), con un rapporto di circa 2 a 1 tra uomini e donne. Sono invece più frequenti i tumori secondari, ovvero le metastasi che colonizzano il fegato provenendo da altri organi. L’età mediana al momento della diagnosi è tra 50 e 60 anni (ESMO). I dati ci dicono anche che oltre il 70% dei casi di tumori primitivi del fegato è riconducibile a fattori di rischio conosciuti, come l’infezione da virus dell’epatite C e da virus dell’epatite B.

Il tumore primitivo del fegato è il sesto più frequentemente diagnosticato al mondo, con circa 841.000 nuovi casi segnalati nel 2018. Inoltre, è la terza causa più comune di mortalità cancro-correlata nel mondo, con oltre 780.000 decessi nel 2018. Con una sopravvivenza a cinque anni del 18%, il tumore del fegato è il secondo tumore più letale dopo il cancro al pancreas.  

Sulle nuove frontiere di cura nel tumore del fegato è intervenuto Andrea Dalbeni della UOC di Medicina Generale per lo Studio e il Trattamento della Malattia Ipertensiva dell’AOUI di Verona: “Nuovi approcci terapeutici sono oggi disponibili da trattamenti chirurgici, loco-regionali a nuove terapie sistemiche con combinazioni di immunoterapia e TKI in nuove modalità di “treatment stage migration” e con terapie destinate a diventare sempre più personalizzate. Il team multidisciplinare che prevede le figure dell’epatologo, internista, chirurgo, oncologo, radiologo, endoscopista, costituisce oggi il miglior approccio nella gestione del paziente con tumore del fegato ed epatopatia cronica sottostante”.

Renato Romagnoli, Professore Dipartimento di Scienze Chirurgiche, Chirurgia 2U, Centro Trapianto Fegato AOU Città della Salute e della Scienza, Torino ha sottolineato l’importanza dello screening nei pazienti epatopatici noti e l’attenzione ai fattori di rischio di epatopatia nella popolazione generale. “Il carcinoma epatocellulare si sviluppa di solito in modo silenzioso in soggetti consapevoli o inconsapevoli di essere affetti da un’epatopatia cronica. Ne consegue la fondamentale importanza dello screening nei pazienti epatopatici noti e dell’attenzione alla detenzione dei fattori di rischio di epatopatia nella popolazione generale. Una volta diagnosticato, il tumore del fegato necessita di una presa in carico da parte di un team che coinvolga anche un Centro Trapianto Fegato per la discussione dei singoli casi clinici. Infatti, il concetto di gerarchia terapeutica in questo campo vede il trapianto in cima alla piramide dei trattamenti, essendo la terapia che conferisce il più alto beneficio poiché è il solo in grado di guarire sia l’epatopatia sia il cancro su di essa insorto”.

Bruno Daniele, Direttore di Oncologia medica dell’Ospedale del Mare di Napoli, ha fatto una distinzione tra pazienti con eziologia virale e pazienti con eziologia non virale, sottolineando l’importanza di mettere in campo un’opera di sensibilizzazione tra gli specialisti per scrinare quei pazienti con rischio anche di epatocarcinoma. “Il paziente che sviluppa tumore del fegato è in generale un paziente che ha fattori di rischio prevalentemente da infezioni virali, epatite B ed epatite C; nella maggior parte dei casi questi pazienti sono noti per questa patologia a rischio, sono seguiti in ambiente epatologico e generalmente sono inclusi in un programma di sorveglianza che si basa sostanzialmente su una ecografia semestrale; questo programma, se è svolto da clinici esperti, determina una anticipazione diagnostica e un miglioramento della sopravvivenza. Il problema dei pazienti con eziologia non virale, l’eziologia Nash in modo particolare, che sono seguiti da specialisti non epatologici, non sono etichettati come epatopatici, non sono generalmente considerati dei pazienti a rischio, quindi bisognerebbe svolgere un’opera di sensibilizzazione tra i diabetologi, tra i cardiologi e tra gli endocrinologi, perché questi pazienti vengano scrinati anche per il rischio di tumore del fegato. Nella regione Campania la Rete oncologica ha individuato dei gruppi multidisciplinari per l’epatocarcinoma che prendono in carico il paziente alla diagnosi di tumore del fegato, ma del gruppo multidisciplinare fa parte l’epatologo, sia esso gastroenterologo o internista, proprio per favorire la presa in carico del paziente al momento della diagnosi della lesione epatica sospetta di epatocarcinoma durane la sorveglianza di questi pazienti”.

“Allora ecco diventa ancora più fondamentale che tutti i PDTA, che ribadiscono l’importanza della multidisciplinarietà, diventino una realtà più concreta – ha sottolineata Sara Lonardi, Direttore f.f. dell’Oncologia 3 presso IRCCS Istituto Oncologico Veneto di Padova -. La mia impressione è che in Italia oggi PDTA e gruppi multidisciplinari siano tra le parole più abusate e male utilizzate degli ultimi anni. Deve essere fatta una riflessione su qual è il ruolo dei centri di riferimento, su cosa significa gruppo multidisciplinare, e credo che invece sia proprio la precocità e l’unitarietà della presa in carico che possono dare la chiave per allungare la sopravvivenza e migliorare la qualità di vita. Tutto questo a isorisorse non siamo più in grado di farlo, dobbiamo chiedere un aiuto. Nella complessità che cresce, dobbiamo essere consapevoli che devono aumentare le competenze e le persone in termini numerici “.

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