La Sanità italiana alla prova della sostenibilità
La tossicità finanziaria in Sanità e l’incidenza delle disuguaglianze sociali riguardo all’aspettativa di vita alla nascita sono anni al centro del dibattito in campo oncologico. Ora però l’allarme arriva dalla Commissione europea che mette il dito nella piaga e dice a chiare lettere che chi è povero vive fino a 7 anni in meno. La Commissione europea due giorni fa ha infatti pubblicato un importante Report che mette in relazione salute, povertà e disuguaglianze sociali. Nulla di nuovo dal fronte occidentale osserveranno i lettori più attenti: in effetti che la povertà relativa e la deprivazione sociale siano direttamente correlati alle opportunità stesse di accesso alle cure sanitarie ce lo dicono da tempo anche tutti i dati epidemiologici relativi proprio alla incidenza e mortalità per cancro. I registri tumori di tute le regioni del nostro Paese rivelano ad esempio che la maggiore mortalità per cancro non si ha tanto in base alla vicinanza o livello di esposizione ai principali carcinogeni ambientali ma in base al potere d’acquisto delle famiglie colpite, al livello socio culturale di provenienza. Di cancro dunque si muore di più nei quartieri poveri e nelle fasce di emarginazione sociale che non nelle tante “Terre dei fuochi” e zone intensamente industrializzate del nostro paese.
La stessa indagine Ue conferma questo dato di fondo, questo rumore che riduce le opportunità di vita in base al ceto sociale di appartenenza: e come detto nei 27 Stati membri, chi appartiene a gruppi socialmente ed economicamente svantaggiati ha un’aspettativa di vita mediamente più bassa, spesso di 5-7 anni rispetto alle classi più abbienti.
L’analisi conferma come le precedenti indagini che i gruppi più vulnerabili hanno maggiore difficoltà ad accedere a servizi sanitari di qualità e aspettative di vita inferiori. Per Italia, il rapporto segnala un forte divario Nord-Sud e dunque maggiori difficoltà nell’assicurare equità di accesso, soprattutto per le fasce a basso reddito e una quota elevata di spesa sanitaria privata che nelle aree di maggior ricchezza sopperiscono alle carenze di opportunità di cura pubblica.
Questa lunga premessa vale per introdurre una riflessione sul governo della Salute nel nostro Paese: le cure sanitarie sono una delle principali sfide di tutti i Paesi del mondo. L’Italia, nonostante le difficoltà degli ultimi anni, continua ad avere uno dei sistemi di cura più efficaci al mondo in termini di esiti in un impianto costituzionalmente garantito imperniato sull’uguaglianza, l’universalismo e l’equità. In poche parole un sistema pubblico che cura chiunque abbia bisogno. Un prezioso strumento di civiltà che ha pochi eguali anche nei Paesi Ocse ma che ha tuttavia davanti alcuni scogli da superare relativi alla sostenibilità dell’innovazione tecnologica.
La carenza di risorse e di personale, le differenze tra regioni mai colmate, i nodi della povertà relativa e della deprivazione sociale di alcune aree del paese a cui peraltro le risorse sono assegnate in maniera insufficiente rispetto ai bisogni a cui vanno aggiunti i nodi irrisolti delle liste d’attesa e dell’equilibrio tra domanda e offerta dipingono un quadro in cui pur potendo l’Italia contare su alcuni punti fermi come l’innovazione organizzativa e quella della ricerca sia farmaco-biologica sia tecnologica, per guardare al futuro deve incidere sull’assetto del Ssn con riforme strutturali non più rimandabili.
I principali osservatori sul sistema sanitario nazionale attraverso un’analisi approfondita sull’evoluzione della spesa privata in Italia, rilevano come nel 2023 si sia raggiunta per questo capitolo una quota di 45,8 miliardi di euro, dei quali 40,6 miliardi a carico dei cittadino. Dati in linea con quelli Ocse che confermano, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il Servizio sanitario italiano è già nei fatti un sistema misto pubblico privato in cui una quota consistente, equivalente a un quarto della spesa pubblica complessiva, viene acquistata direttamente dai cittadini che possono permettersi di mettere mano al portafogli comprando di tasca propria quel che gli serve e by passando ogni scoglio. Di contro dal Rapporto sul benessere equo e sostenibile 2023 dell’ISTAT, la percentuale di persone che rinunciano a prestazioni sanitarie, dopo i picchi del periodo pandemico, si è attestata al 7,6 per cento nel 2023, un dato che rimane comunque superiore a quello pre pandemico del 2019 (6,3 per cento) e in aumento rispetto al 2022 (7 per cento): in concreto si tratta di oltre 4,48 milioni di persone che, secondo la definizione ISTAT, hanno dichiarato di aver rinunciato nell’ultimo anno a visite specialistiche o esami diagnostici pur avendone bisogno, per uno o più motivi mentre nel 2022, la mobilità sanitaria interregionale in Italia ha raggiunto il valore massimo di 5,04 miliardi di euro, cifra nettamente superiore a quella del 2021 (pari a 4,25 miliardi di euro): in particolare si è registrato un flusso ingente di pazienti e di risorse economiche dalle regioni del Mezzogiorno verso il centro Nord. Ciò mette in luce, ancora una volta, come vi sia un’enorme disparità tra le prestazioni sanitarie offerte nelle regioni del sud Italia e quelle del nord. Tra le motivazioni che hanno indotto alla rinuncia alle cure vi sono diverse cause: ragioni economiche, inclusa la perdurante perdita di potere d’acquisto delle famiglie, difficoltà di accesso, carenza di strutture e orari compatibili con l’attività lavorativa, tempi d’attesa estremamente lunghi e che, spesso, costringono a rivolgersi a strutture private, con un evidente aumento dei costi. A fronte di ciò il decreto liste d’attesa approvata con toni trionfalistici dal Governo resta un mezzo flop anche per le ampie sacche di resistenza di larghe corporazioni presenti nel tessuto produttivo della sanità italiana.
Il governo dal proprio canto si difende rivendicando oltre 10 miliardi di investimenti pur riconoscendo le criticità e invita a leggere i dati reali e a puntare su efficienza, innovazione e sostenibilità illustrando una strategia in quattro punti per rilanciare il Ssn elencando alcune misure già adottate per potenziare il SSN: dalla proroga dell’assunzione dei medici specializzandi, all’aumento delle tariffe per le prestazioni aggiuntive, fino alle nuove indennità per medici, infermieri e operatori del pronto soccorso puntando a razionalizzare la rete ospedaliera, a potenziate sanità territoriale e sviluppare le case di comunità previste dal PNRR e potenziare digitalizzazione e telemedicina.
In un così complesso e articolato panorama anche congiunturale l’unica risposta percorribile per conservare la preziosità del Servizio sanitario nazionale appare quella di una riforma strutturale da attuare a quasi mezzo secolo di distanza da quella fondativa del 1978. Una riforma da attuare coinvolgendo tutto l’arco parlamentare e interloquendo con gli operatori ma senza derogare alla funzione istituzionale di governo ma che sia capace di incidere sugli scoglio che ostacolano l’accesso delle cure ai cittadini che ne hanno bisogno e che restano al centro di un sistema logoro, usurato, frammentato e non più adeguato, pieno di falle ma che proprio perché ben concepito rappresenta ancora uno dei migliori sistemi di cura rispetto ai principi che lo ispirano, da tutelare e rinnovare ma non tradire alla luce dell’innovazione che cambia il futuro e sta cambiando rapidamente anche la Sanità.





