Quando la fertilità diventa un percorso: il racconto di chi accompagna e di chi affronta
Tra diagnosi sempre più frequenti di infertilità, percorsi complessi di fecondazione assistita e nuove forme di genitorialità, il ruolo del medico oggi non è solo clinico, ma anche profondamente umano.
Ne parliamo con la dottoressa Jessica Melluso, ginecologa specializzata in PMA, che da anni accompagna coppie e singoli nel difficile cammino verso la genitorialità. Accanto alla sua attività medica, ha scelto di raccontare la sua esperienza personale e professionale anche in un libro, Storie di sopravvivenza per aspiranti madri, dando voce a un tema ancora troppo spesso sottovalutato.
Dottoressa Melluso, qual è, secondo la sua esperienza, il principale errore che le coppie commettono quando iniziano un percorso di concepimento naturale che poi si rivela difficile?
“Perdere tempo. Un detto conosciuto dice che ‘il tempo è tiranno’ e mai frase risulta più calzante come in questo contesto. Questo discorso purtroppo vale soprattutto per noi donne: mentre gli uomini per tutta la vita, dalla pubertà in poi, producono spermatozoi nuovi ogni 3 mesi, noi donne invece abbiamo presenti in noi sin dalla nascita tutti i nostri ovociti che inesorabilmente diminuiscono (e invecchiano) giorno dopo giorno, fino ad esaurirsi con l’ingresso in menopausa. Quindi il passare del tempo decreta giorno dopo giorno la riduzione della nostra fertilità. Più aspettiamo meno sono le possibilità. Nel caso di una coppia che sta attivamente cercando una gravidanza ‘perdere tempo’ vuol dire attendere troppo tempo prima di rivolgersi a uno specialista e cercare aiuto: dopo 12 mesi di tentativi liberi bisogna già richiedere aiuto (tempo che si riduce a 6 mesi se l’età della donna è superiore ai 35 anni). È però importante rivolgersi a un medico specializzato in infertilità per evitare di confrontarsi con chi, ancora oggi, potrebbe liquidare la coppia con risposte tipo ‘non ci pensare, datti tempo, continuate a provare…'”.
Si assiste a un aumento dell’infertilità maschile. Può dirci quali sono oggi i principali fattori ambientali e comportamentali che influiscono sulla fertilità dell’uomo?
“Oggi l’infertilità maschile è sempre più frequentemente una ipofertilità influenzata da una combinazione di fattori ambientali, comportamentali e stili di vita, oltre che da cause mediche. I fattori ambientali includono l’inquinamento atmosferico, che riduce la concentrazione e la motilità spermatica (lo smog urbano è correlato a danni del DNA spermatico); l’esposizione a sostanze chimiche e interferenti endocrini: le microplastiche (ritrovate anche all’interno del liquido seminale), i pesticidi, i solventi industriali alterano la produzione ormonale e danneggiano le cellule testicolari; le radiazioni elettromagnetiche (uso di smartphone e pc portatili vicino all’area genitale) riducono la motilità degli spermatozoi; il calore: lavori e ambienti caldi (forni, saune frequenti, pantaloni stretti) interferiscono con la produzione degli spermatozoi; esposizione a metalli pesanti (piombo, cadmio mercurio) sono tossici per la funzione testicolare. I fattori comportamentali e gli stili di vita che alterano la spermatogenesi sono: il fumo di sigaretta (anche quella elettronica), l’alcool, droghe, l’obesità e il sovrappeso, la ridotta attività fisica, lo stress cronico, la mancanza di sonno o ritmi circadiani alterati (chi fa turni di lavoro notturni), una dieta povera di antiossidanti (carenza di zinco, selenio, Vitamina C ed E, Coenzima Q10)”.
Cosa consiglia alle donne sopra i 35 anni che si avvicinano alla maternità per la prima volta? Mi sembra di aver compreso che esistono tempistiche ideali per iniziare ad approfondire eventuali difficoltà…
“Come accennavo, bisogna rivolgersi a un medico specialista in infertilità dopo 6 mesi di tentativi di concepimento libero: dopo i 35 anni la fertilità di una donna comincia a ridursi più rapidamente subendo poi una caduta sempre più veloce dopo i 40 anni per poi crollare dopo i 45 anni. Lo studio della riserva ovarica, rilevata mediante un prelievo di sangue per l’AMH (ormone antimulleriano) e un esame ecografico transvaginale per la conta dei follicoli antrali (AFC), permettono di valutare il potenziale riproduttivo residuo in termini di quantità ovocitaria. Ma non si tratta solo di quantità. Bisogna sempre tenere in considerazione anche la qualità, che peggiora con l’età: una donna di 25 anni può avere una riserva ovarica inferiore rispetto a una donna di 35 anni, ma il suo potenziale riproduttivo è migliore in quanto i suoi ovociti sono più giovani: in questo caso vale più il concetto ‘pochi ma buoni'”.
Nel suo libro sottolinea spesso l’importanza del supporto psicologico durante la PMA. Quanto è integrato questo aspetto nei percorsi clinici attuali e cosa manca ancora secondo lei?
“In Italia dal 2008 il supporto psicologico nei percorsi di Procreazione Medicalmente Assistita è previsto dalla normativa, ma a volte la sua integrazione clinica presenta ancora alcune lacune significative. L’obiettivo è quello di sostenere l’informazione, il consenso, la gestione emotiva e la relazione di coppia nel percorso diagnostico e terapeutico. I vantaggi sono quelli di dare una valutazione clinica psicologica iniziale e prima di iniziare i protocolli di stimolazione ormonale, di supportare durante le fasi più difficili quali il prelievo ovocitario (o testicolare) l’attesa dei risultati, gli aborti selettivi e gli esiti negativi affrontando temi sull’ansia da performance, lo stress delle attese e la gestione della relazione di coppia. A volte però manca una presenza attiva e continuativa in quanto spesso lo psicologo è coinvolto solo su richiesta o nelle fasi più critiche. Non esiste un protocollo uniforme a livello nazionale. Ma forse l’aspetto più importante è il supporto continuativo post-esito: non sempre è fornito un percorso di supporto adeguato in caso di fallimenti ripetuti, laddove la coppia diventa più fragile e instabile. La coppia è preparata e accetta più facilmente i primi fallimenti di una tecnica PMA, ma spesso inizia a vacillare quando questi cominciano a essere 3 o più: è lì che ha bisogno di essere ascoltata, che richiede nuovamente spiegazioni cercando risposte che il più delle volte sono solo insite nei limiti della tecnica: spesso hanno bisogno semplicemente che venga loro spiegato ancora una volta quello che succede e come funziona. Mai come in questi percorsi si ha bisogno di avere un dialogo: di parlare, di ascoltare e di essere ascoltati”.
In chiusura, in base alla sua esperienza clinica e personale, come può una donna, ma anche un uomo, accettare e vivere pienamente un percorso alternativo alla maternità/paternità biologica, come l’adozione o la scelta consapevole di non essere madre/padre?
“La domanda più difficile arriva sempre per ultima. Ma la risposta in realtà è banale: bisogna essere centrati su sé stessi. Un figlio non deve essere visto come un completamento della coppia. Un figlio arricchisce una coppia. Si è già famiglia in due e una famiglia di due è composta da due singole persone già forti a sé stesse, con i propri interessi, le proprie passioni e che hanno scelto di avere progetti in comune, tra i quali avere un figlio è solo uno dei tanti, ma che sanno di poter bastare a sé stessi e che il loro amore e l’essersi scelti è più forte sopra tutti gli altri. Nelle commissioni per le adozioni questo è un parametro di valutazione fondamentale… ma questa è tutta un’altra storia”.





