L’ambroxolo, un farmaco mucolitico ed espettorante, ampiamente usato per trattare le malattie respiratorie che causano un’eccessiva produzione di muco denso e che normalmente agisce fluidificando il muco e facilitandone l’eliminazione contribuendo a liberare le vie respiratorie, sembra essere in grado di sbarrare il passo alla progressione degenerativa del parkinson.
Lega infatti un enzima coinvolto nel declino cognitivo associato alla malattia di Parkinson. Uno studio ne ha esplorato tollerabilità ed effetti collaterali.
L’ambroxolo è usato in Italia e in altri paesi europei – ma non negli Stati Uniti o nel Regno Unito – per trattare la tosse grassa e le affezioni broncopolmonari ma ora potrebbe trovare utilizzo in neurologia, e più precisamente nella malattia di Parkinson (Parkinson’s disease, PD). Si è infatti scoperto che questa molecola è in grado di legare la β-glucocerebrosidasi (GCase), un enzima coinvolto nel declino cognitivo associato alla PD. Studi preclinici in modelli animali hanno dimostrato che l’ambroxolo aumenta i livelli di GCase e riduce quelli dell’α-sinucleina, proteina con un ruolo cruciale nella patogenesi della malattia. Dopo che uno studio pilota ha mostrato gli stessi effetti nel liquor di pazienti con PD, uno studio di fase 2 – pubblicato sulla rivista JAMA Neurology – ha testato sicurezza e tollerabilità dell’ambroxolo in questa popolazione ed esplorato il suo potenziale come farmaco modificante la malattia.
Sicuro e ben tollerato
Lo studio, monocentrico in doppio cieco, ha arruolato 55 pazienti (età <50 anni) con demenza associata alla malattia di Parkinson (PDD) che avevano avuto la diagnosi di PD almeno un anno prima della comparsa di una demenza lieve-moderata. I partecipanti sono stati randomizzati per ricevere una bassa dose di ambroxolo (525 mg/giorno; n=8), un’alta dose di ambroxolo (1.050 mg/giorno; n=22) o il placebo (n=24) per 52 settimane.
Gli eventi avversi gastrointestinali erano più frequenti tra i pazienti che avevano assunto ambroxolo che tra quelli che avevano assunto il placebo (12% contro 5%), ma complessivamente il trattamento era sicuro e ben tollerato. “I partecipanti che hanno assunto ambroxolo hanno avuto meno cadute ed eventi avversi neuropsichiatrici rispetto a quelli che hanno assunto placebo, il che suggerisce che l’ambroxolo non ha esacerbato questi comuni sintomi debilitanti nella PDD”, hanno sottolineato gli autori dello studio.
Efficacia da dimostrare
L’attività della GCase nei leucociti alla settimana 26 era significativamente più alta nel gruppo di pazienti trattati con ambroxolo che nel gruppo placebo (12,45 ± 1.97 nmol/h/mg contro 8,50 ± 1.96 nmol/h/mg; p = 0,05), a indicare un’interazione del farmaco con il target; alla settimana 52, l’attività rimaneva più alta nel gruppo sperimentale, ma la differenza non era statisticamente significativa.
Le capacità cognitive dei pazienti – valutate utilizzando due strumenti (Alzheimer Disease Assessment Scale – cognitive subscale [ADAS-Cog] and Clinician’s Global Impression of Change [CGIC]) – non sono risultate significativamente diverse tra i gruppi. I 5 pazienti portatori di varianti del gene che codifica per la GCase (GBA1) – varianti che si associano a un declino cognitivo più precoce e a deficit cognitivi più gravi – trattati con ambroxolo hanno però mostrato un miglioramento clinicamente significativo nel punteggio ADAS-Cog tra la baseline e la fine dello studio.
“Sebbene il campione sia troppo piccolo per supportare qualsiasi conclusione, evidenziamo questi risultati dato il proposto meccanismo d’azione dell’ambroxolo sull’attività della GCase, particolarmente bassa nei portatori di una variante genetica di GBA1”, hanno scritto gli autori. Che hanno anche aggiunto che sono già in corso altri studi clinici che stanno testando gli effetti dell’ambroxolo nella PD, nella demenza a corpi di Lewi e anche nei portatori di varianti di GBA1, concludendo che “Questi studi contribuiranno a chiarire il potenziale dell’ambroxolo nel migliorare gli esiti cognitivi”.