Quello della persona con epilessia resta un percorso ad ostacoli. Soprattutto perché l’epilessia è una malattia ancora poco conosciuta e poi esistono pregiudizi sul posto di lavoro e a scuola quando sono i bambini ad essere colpiti dalla malattia.
Con la Professoressa Angela La Neve, neurologa ad alta specialità in epilessia e responsabile del Centro per la diagnosi e la cura delle epilessie del Policlinico di Bari, cerchiamo di capire come si può migliorare la presa in carico del paziente epilettico, cosa c’è ancora da fare per fare sì che l’epilessia non sia più un tabù ma un disturbo da affrontare e curare come le altre malattie.
Professoressa La Neve, si parla poco di epilessia nonostante il suo impatto, ricordiamo che di questa malattia si può anche morire. Perché se ne parla poco e cosa si può fare per sensibilizzare e informare le persone, anche per vincere lo stigma esistente sul posto di lavoro e a scuola?
Si parla poco di epilessia perché sono le stesse persone che ne sono portatori e i loro familiari a nasconderla e sottacerla e questo per non subire le conseguenze dello stigma che ancora grava la patologia. L’informazione sull’epilessia dovrebbe essere capillare interessando le scuole dai primi anni (elementari) ai corsi di laurea. La Lice, la Lega italiana contro l’epilessia in questo si è fatta capofila di un progetto di questo tipo ma l’adesione da parte delle scuole non è stata altissima.
Pertanto credo che dovrebbero essere presi provvedimenti dai decisori politici centrali e regionale che rendano obbligatoria l’informazione sulla patologia e la formazione in merito all’intervento corretto in caso di crisi epilettica. L’ambito del lavoro è ancora più problematico perché non esiste a tale proposito una normativa. Spesso le persone con epilessia tendono a non esplicitare la loro condizione nel timore di non essere assunti, evenienza questa che è tutt’altro che rara, anzi è la più frequente. Sarebbero necessaria una normativa ad hoc a tale proposito come quella sul diritto alla patente di guida che ha delineato perfettamente i diritti delle persone con epilessia e che è una legge non solo italiana ma europea.
Percorsi diagnostici terapeutici assistenziali (PDTA) condivisi e livelli essenziali di assistenza (LEA): quali sono ancora i problemi aperti? E come potrà il Piano nazionale di ripresa e resilienza aiutare ad affrontare questi temi?
I LEA al momento hanno gravi carenze, prima fra tutti la non rimborsabilità della risonanza magnetica encefalo. Ancora: sono al difuori dei LEA tutte le procedure diagnostiche e i trattamenti delle cosiddette comorbidità che spesso si associano alle crisi epilettiche in una serie di quadri di epilessia. Ancora: non tutte le regioni hanno recepito la rimborsabilità del dosaggio dei cosiddetti nuovi farmaci antiepilettici ma che nuovi non sono più. Credo che il concetto di PDTA quale strumento di risoluzione del problema è oggi nel 2021 superato.
L’epilessia come patologia deve entrare di diritto nel tema della gestione della cronicità con una complicazione in più: è una malattia cronica ma può essere caratterizzata da situazioni di urgenza-emergenza. È questo il motivo per cui ritengo che la patologia abbia tutte le caratteristiche cliniche e dati epidemiologici alti da necessitare di un input del governo centrale per la realizzazioni in ogni regione di reti della epilessia con criteri omogenei definiti appunto dal governo centrale.
Qual è il ruolo della diagnosi precoce e della diagnosi genetica? Ci sono tanti esami inutili, la genetica farebbe risparmiare i costi dell’epilessia?
La diagnosi precoce e corretta sono fondamentali per il paziente con epilessia e per la sostenibilità dei servizi sanitari regionali. La diagnosi precoce e corretta infatti consente di individuare precocemente una terapia farmacologica corretta evitando odissee diagnostiche che determinano un enorme carico emotivo psicologico e anche economico. Se il paziente è identificato quale farmacoresistente subito, se ne ha le caratteristiche dovrà essere sottoposto a valutazione pre-chirurgica e se possibile operato. Questo approccio ha un costo complessivo, considerando anche il necessario follow up a 5 anni, di circa 25mila euro. Ma quanto costerebbe un paziente farmacoresistente in termini di costi diretti (terapie, accessi al pronto soccorso, ricoveri, accertamenti strumentali/laboratoristici) e indiretti al sistema sanitario nell’arco delle 4, 5, 6 decadi di aspettativa di vita di questa persona?
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