Intervista a Giuseppe Errico, psicologo psicoterapeuta, allievo di Sergio Piro, presidente dell’Istituto di Psicologia
e Ricerche Socio-Sanitarie
Ogni pratica medica o colloquio clinico, nel campo medico o psicologico-psichiatrico, dinanzi al dolore dell’altro è una sfida nuova, aperta, un evento mutazionale. “Il corpo cambia, la psiche muta – avverte Giuseppe Errico psicologo e psicoterapeuta, allievo di Sergio Piro, attualmente presidente dell’Istituto di Psicologia e Ricerche Socio-Sanitarie (Formia) e ricercatore nel campo delle scienze umane ad indirizzo Antropologico-Trasformazionale – aperto all’analisi di ciò che accade durante una malattia, alla speranza (guarigione) e all’attesa (cura). Ogni terapia per il paziente si presenta come uno stravolgimento del destino temporale e le tappe della cura sono molteplici e alternate”.
Alla base del lavoro clinico c’è dunque la necessità di accogliere: questo il significato della presa in carico E di poter intervenire sui cambiamenti. “Durante una malattia – spiega Errico – l’accadere dell’accadere umano, il flusso degli eventi fisici e psicologici che accadono nel corpo e nella coscienza ci invita ad intraprendere un viaggio misterioso e imprevedibile nella direzione di una cura, verso il mutamento di tutte quelle condizione di assestamento e adeguamento dei processi interni del corpo e agli stati emotivi del paziente”.
Insomma ogni cura mostra all’osservatore clinico aspetti diversi nei diversi tempi della pratica clinica. Solitamente il paziente avverte il disagio interiore e il mutare degli orizzonti personali, sociali, che si susseguono. «Ogni nuovo malato impone di ricominciare tutto da capo e quindi ogni riflessione sull’incontro in generale vuol dire non perdere ma guadagnare tempo, perché ci avvicina alla condizione di rendere possibile che ogni nuovo colloquio clinico sia un incontro e quindi un atto psicoterapeutico». Tali aspetti sono legati alla vita e alla malattia, ai suoi molteplici legami umani in cui si trova a vivere: la cronodesi fondamentale (il legame agli orizzonti nella relazione persona-tempo) coinvolge ogni cosa come soleva dire Piro. Ma, al di là degli aspetti soggettivi del paziente legati alla condizione del corpo “esiste una misteriosa sofferenza oscura (psichica) legata al flusso del tempo, alla storia di ogni singolo paziente, è legata ai processi e ai mutamenti, da una parte”.
Nel campo psicologico capita, in determinate circostanze, negli spazi di vita, che il paziente si chiuda nel silenzio della malattia anche dinanzi al medico, ossia in se stesso, evitando di intrattenere con le persone una comunicazione. Che fare?
“Sconfina il paziente, a volte, in questa dimensione pessimistica della vita, che non gli consente di poter affrontare il suo destino, mentre un processo catastrofico mette a fuoco unicamente le cose inutili e dolorose (tristezza, angoscia, ecc.). Nel campo cognitivo delle immagini interne della tristezza (che si tramutano in forme lievi e gravi di depressione psicopatologica e di arresto del tempo patico), ciò sembra accadere di continuo e senza soste: la parola perde di valore curativo, tutto ciò che si pone tra il paziente e la vita vissuta perde di significato: la vita smarrisce il senso autentico e esistenziale. Il paziente smette di perseguire la speranza. Le parole perdono il loro valore curativo”.
Le parole che svolgono un ruolo terapeutico e che, dinanzi al dolore assumano il valore di strumenti umani come fiunzionano in senso psicodinamico?
“Le parole, il contagio emotivo, l’intuizione terapeutica, i percorsi cognitivi, ci consentono di capire che cosa avvenga dentro di noi (nei labirinti della coscienza) e nei pazienti (nei labirinti del dolore del corpo e della psiche), dentro gli abissi misteriosi della vita interiore. Questi strumenti umani legati alla parola (linguaggio, patos o affettività) ci consentono di sentirci meno soli, vanno al di là del muro di isolamento in cui siamo immersi durante il tragitto della vita: l’introspezione (coscienza di se) e la immedesimazione (capacità di condividere l’altro diverso da noi), così come la capacità di sapere guardare i processi umani ci consente di comprendere ciò che accada dentro noi stessi e gli altri nel corso di ogni cura. Molte situazioni cliniche nascono quando, da una parte, c’è chi chiede aiuto per un dolore (ascolto, comprensione) e, dall’altra parte, c’è qualcuno che vuole dare il suo aiuto a livello tecnico e morale. Curarsi vuol dire non smettere mai di interrogarsi su cosa occorre fare per ridurre o prevenire un danno fisico o psichico”.
Dietro ogni accadimento umano, soprattutto in campo psicologico, si cela una sofferenza oscura, un cambiamento e una nuova scelta?
“Sì e non è affatto vero che follia e normalità siano due entità astratte che non hanno assolutamente nulla in comune: esistono forme di follia in ciascuno di noi e, in casi rari, tali elementi possono emergere dal nulla e durante una crisi. Dinanzi alla sofferenza personale la parola della cura può riuscire ad intuire che cosa si nasconda nel dolore, nei silenzi, nelle attese e negli sguardi delle persone con cui noi siamo in relazione. Ogni colloquio terapeutico non è solo costituito dal linguaggio delle parole, ma anche del linguaggio del “sentire l’altro” (pathos). Il clinico cerca di fare sgorgare dalle parole anche i significati nascosti dalle inquietudini, dai traumi ed eventi negativi di vita o accadimenti “catastrofici”, per aiutare chi parla e ascolta, a comprendere ciò che la coscienza suggerisce”.
E perché e quando funziona il rapporto di cura?
“Insieme, il clinico e il paziente, tentano di trovare qualcosa che unisca su di un piano psicofisico, qualcosa che consenta di guardare alla vita interiore nel suo legarsi al flusso degli accadimenti vitali. La cura, in questo caso, ci avvicina al comprendere la vita umana anche nel dolore. Ogni esperienza umana che la persona ha di un sintomo, si intreccia con il suo modo di stare nel mondo, di vivere e di intendere il rapporto con gli altri, di percepire il tempo passato presente e futuro, di comunicare e di esprimersi. Sicuramente questa modalità di cura (che coinvolge su di un piano emotivo clinico-paziente), ci invita a non usare degli schemi rigidi e interpretativi rispetto al dolore (spiegazione pre-confezionata), ci appare molto più difficile da attuare poiché la relazione clinico-paziente ha maggiore vicinanza emotiva (avvicinamento al dolore dell’altro), ricchezza linguistica-espressiva, una vicinanza ai vissuti interiori del paziente”.
La cura ha mille forme e tanti i percorsi di terapie possibili?
“In linea generale si distinguono in due principali tipologie e approcci al dolore dell’altro. C’è una modalità legata soltanto alla descrizione fredda e neutrale dei sintomi che un paziente presenta e che confluisce, in gran parte nel grande, apparentemente profetico, discorso delle neuroscienze “a tutti i costi”: la cura, agli occhi del terapeuta, appare come una brillante immagine di un corpo non funzionante, di un cervello- organo attivo (che viene considerato il luogo esclusivo della malattia come se la cultura non avesse un suo ruolo, la storia delle esperienze sedimentate nella vita), degna di essere osservata, studiata. Alternativa a questa ipotesi, è la cura patica basata su uno scambio umano clinico-paziente, che partecipa del suo destino (la cura come “comunità di destini”), come una traccia che faccia parlare, ragionare, e riflettere chi sta male, che ascolti le parole e i fenomeni emozionali che chiedono aiuto e che vogliono condividere la loro l’esistenza anche durante la malattia”.
Tra i tanti approcci alla sofferenza umana, ad esempio, come quella depressiva che può accompagnare il paziente anche durante una terapia medica, quale funziona meglio?
“Vi è un approccio particolare che ha le sue basi nella fenomenologica (Husserl, Jaspers, Binswanger, Heidegger, Piro, Calvi, Borgna. Tra le tante forme di dolore umano la depressione, come sappiamo, non solo è in aumento ma priva l’umanità di ogni speranza di guarigione. Niente di nuovo nasce dalla cura medica per il paziente quando il pessimismo profondo regna su ogni accadimento: l’importante relazione e rapporto con il “mondo” si presenta compromesso: il mondo del clinico e quello del paziente si allontano, tra loro, da ogni forma di comunicazione empatica. Non sembra più possibile nessuna partenza o prospettiva, nessun domani, rispetto a ciò che è già stato (il ricordo) e a ciò che verrà (il futuro). Assistiamo a una sorta di resa alla cura. Alcuni pazienti, durante il sofferto percorso di cura, non sperano nulla. Non avvertono più il bisogno di futuro: il tempo si atrofizza e si blocca in un presente fatto di incertezza e ansia. Ed allora è necessaria una nuova pratica di cura, che coinvolga i caregiver, il territorio, la comunità di destini, che comprenda anche una presa in carico a livello territoriale, sociale, il lavoro di equipe, ma soprattutto nuovi metodi empatici di interazione tra clinico- paziente. Tale approccio di cura potrà avere delle sue peculiarità è soprattutto porre attenzione estremamente forte alla persona (mondo della persona o essere nel mondo), all’interiorità del paziente (vissuti) e non tanto e esclusivamente al sintomo, al disturbo, alla malattia, quanto al mondo- vissuto del paziente. Questa cura, che a volte appare un po’ distante da quelli che sono i paradigmi scientifici dei disturbi (le evidenze scientifiche), non cerca di oggettivare una serie di sintomi e segni e di racchiuderli in entità e schemi che sono abbastanza definite e rigide”.
E quindi?
“Quindi Questa cura valorizza il contatto umano ossia il mondo del paziente. Tale contatto umano (tra chi soffre e chi deve poter accogliere e curare l’altro), si avvale, oltre gli aspetti tecnici, del colloquio empatico (patico), verbale ed espressivo, ed aiuta a comprendere la vita altrui e la propria, ci aiuta a capire, intuitivamente, il più possibile quello che è il sentire interiore di ogni paziente. In campo psicologico non esiste un’ansia o tristezza o dissociazione astratta (basata sul modello scientifico e pre-costituisco del clinico), ma il disagio di quel determinato paziente nella sua storia personale, vissuta all’interno del suo mondo interiore. Spesso si dimentica, durante una cura medica quando sia importante una parola detta in un modo o in un’altra (comunicazione empatica). I medici, in alcuni casi, dimenticano che esiste “la psiche del paziente” e che la coscienza interiore (il patire) diventa inafferrabile. La sofferenza è in relazione alle relazione che ogni persona instaura con il mondo degli altri (campo delle relazioni umane). La cura, soprattutto quella psicologica, non ha bisogno di basarsi su modelli pre-confezionati ma piuttosto sull’intuizione patica, sul silenzio, sul valore della parola, sulla fluenza espressiva, sull’attesa e la sospensione del giudizio (pausa).
Oggi, nel nostro tempo, il concetto di patico è bene che entri a pieno titolo nell’ambito della riflessione medica e sul tema della salute. Tale tema è sempre più vicino alla storia del paziente e al suo mondo-destino, alla sua sofferenza fisica e psichica (lacerata, smarrita, isolata)”.
Il “patico” è sempre presente nella vita di coscienza?
“Tutto ciò ci aiuta ad essere estremamente sensibili ed estremamente vivi e ci aiuta ad affrontare anche momenti di malattia: l’ansia, la depressione, la dissociazione non possono essere studiati o oggettivati dall’esterno o a partire dall’analisi del corpo ma dal mondo del paziente. Patico, quindi, è il modo umano della coscienza che vive insieme agli altri (mondo relazionale) durante l’esistenza normale e la malattia. Esso è in atto in ogni momento del Sentir-si. Le emozioni del paziente si umanizzano grazie al patire ed entrano nella nostra esistenza, facendo in modo di sentirci vivi e legati al mondo degli accadimenti. Ogni cosa accade anche nella coscienza e ci conduce verso l’esterno, il mondo delle relazioni, il coesistere con gli altri oltre che con noi stessi. Nessuna cura della psiche può avvalersi esclusivamente di farmaci o di una psicoterapia basata su calcoli, test, griglie e modelli comportamentali schematici. Ogni cura è percorso di guarigione e accadimento patico-emotivo. L’enorme carica emozionale di questo limite estremo del nostro esistere come suggerisce Lévinas (1935) mostra la contingenza straripata del fiume della vita della coscienza, la “destabilizzante tensione del proprio trovarsi ad essere”, sentito come l’assolutamente infondato eppure unico”.
Siamo durante una malattia, qual è il vissuto positivo che aiuta la cura?
“In alcuni casi i «soggetti» (pazienti), sono assoggettati all’imprevisto, mutamento, al dolore, vincolati al nostro essere esposti a colpi e situazioni di sofferenza (cambiamenti catastrofici). Tutto si muove dall’intimo della vita della coscienza. Affinché un’emozione diventi nota e non un mero fatto fisiologico, occorre che vi sia un fenomeno di coscienza, che sia «necessario che si produca nella mente un Sé che sente» (Damasio, 1994). Ci si trova, per essa, presi nella dinamica esistenziale, in cui non soltanto le emozioni occasionali, ma tutti i vissuti del dolore, cioè gli sguardi sulle cose, si costituiscono nella loro fenomenalità, nella loro umanità di vissuti personali e collettivi. Solamente nel patico il paziente avverte la cura, accoglie le parole del medico o dello psicologo, avverte di esistere, tenta di afferrare il suo mondo personale e di lottare con la sofferenza. La paticità del paziente durante la malattia non è solo tuttavia emozione negativa (sensazione), o pura funzione biologica ma è comprensione di se stesso e di ciò che accade nei momenti difficili. Per Freud «Ogni sofferenza non è che sensazione, sussiste nella sola misura in cui la proviamo»[Freud, 1930]. Non solo non vi sono piacere e dolore, ma neppure percezione e ragionamento, immaginazione e ricordo, che siano tali, soggettivi, se non sono intrisi di sentir-si, se non recano una oscillazione tra il dentro e il fuori. Ogni accadere sfiora la coscienza. Solitamente non comprendiamo mai del tutto cosa accade a livello patico dentro di noi, neppure da dove venga il dolore psichico durante una malattia o sofferenza oscura (Piro, 2005) né dove vada, e neppure perché tutto ciò sia potuto accadere alla propria persona. La cura ha mille volti così come a volte il dolore del paziente”.