Secondo il registro Orphanet, in Europa l’incidenza della mielofibrosi è compresa tra 0,1 e 1 caso ogni 100.000 persone, con una prevalenza di circa 2,7 su 100.000. In Italia si stimano circa 350 nuovi casi all’anno. Colpisce prevalentemente adulti con un’età media di 65 anni, ma circa un paziente su quattro ha meno di 56 anni alla diagnosi, e uno su dieci meno di 46. La gestione della malattia è complessa e richiede un approccio multidisciplinare: non solo per affrontare la patologia ematologica, ma anche per gestire le complicanze, i sintomi e l’impatto psicologico e sociale che ne derivano.
Attualmente, l’unica cura potenzialmente risolutiva è il trapianto allogenico di cellule staminali ematopoietiche, ma meno del 10% dei pazienti può accedervi, a causa dell’età avanzata, della difficoltà nel trovare donatori compatibili e dei rischi post-trapianto. Le terapie farmacologiche, come gli inibitori di JAK, hanno ampliato le opzioni terapeutiche, ma non modificano in modo sostanziale il decorso della malattia. Per questo, la mielofibrosi rappresenta una sfida non solo clinica, ma anche organizzativa e sociale, che richiede risposte strutturate e una presa in carico integrata e continua.
È in questo contesto che nasce il progetto “Uniti per la Mielofibrosi”, presentato oggi a Roma in occasione del mese dedicato alla sensibilizzazione sui tumori ematologici. L’iniziativa, sostenuta da AIL, AIPAMM, A.PRO.T.I.ON, FAVO, Fondazione Renata Quattropani, La Lampada di Aladino, Fondazione GIMEMA, MPN Advocates Network, SIPO e con il contributo non condizionante di GSK, ha l’obiettivo di sensibilizzare le Istituzioni sui bisogni insoddisfatti dei pazienti e promuovere un cambiamento concreto nella gestione della malattia.
Cuore del progetto è il Libro Bianco “Uniti per la Mielofibrosi – Verso un futuro migliore”, che raccoglie testimonianze di pazienti, caregiver e clinici, e propone cinque aree di intervento prioritarie:
Ricerca e accesso equo alle cure: investire in nuove terapie, migliorare i trattamenti per l’anemia, garantire equità territoriale e promuovere la cultura della donazione.
Cure personalizzate e vicine al paziente: potenziare la telemedicina, migliorare l’organizzazione delle trasfusioni e investire in strutture moderne.
Supporto psicologico continuo: integrare il sostegno psicologico sin dalla diagnosi, rendendolo parte integrante del percorso terapeutico.
Sostegno ai caregiver: riconoscere diritti, offrire formazione e supporto psicologico a chi si prende cura dei pazienti.
Informazione e formazione: rendere accessibili le informazioni su diagnosi e trattamenti, migliorare la formazione dei medici di base.
Questi punti sono stati sintetizzati nel Manifesto “Uniti per la Mielofibrosi”, firmato oggi dalle Istituzioni presenti. Un documento che rappresenta un appello concreto per migliorare la qualità di vita dei pazienti e costruire una sanità più equa e vicina.
«La gestione del paziente con mielofibrosi, specialmente se trasfusione-dipendente, è complessa e richiede un approccio multidisciplinare», ha spiegato Massimo Breccia, ematologo della Sapienza Università di Roma. «Non si tratta solo di curare la malattia, ma di affrontare sintomi, complicanze e impatto psicologico».
«La presenza di ematologi e personale specializzato sul territorio è ancora troppo limitata», ha sottolineato Francesca Palandri, istituto di ematologia Seràgnoli, Azienda Ospedaliera Universitaria di Bologna. «Rafforzare l’assistenza domiciliare e il coordinamento con i centri specialistici è fondamentale».
«L’introduzione degli inibitori di JAK ha rappresentato un importante ampliamento degli strumenti terapeutici», ha aggiunto Paola Guglielmelli, Università di Firenze. «La ricerca continua a offrire nuove prospettive, ma serve ancora una terapia capace di cambiare radicalmente il decorso della malattia».
Fondamentale anche il ruolo dello psico-oncologo. «Quando fa parte a tempo pieno dell’équipe curante, può incidere positivamente sull’esperienza di malattia», ha affermato Gabriella De Benedetta, psicologa dell’Istituto Pascale di Napoli. «L’importante è intervenire non “al bisogno”, ma normalizzare il percorso e gestire tutto il processo di comunicazione con un’unica regia».
Il progetto “Uniti per la Mielofibrosi” è un esempio virtuoso di come le Associazioni di Pazienti possano diventare protagoniste del cambiamento. Un’iniziativa che non si limita a denunciare le criticità, ma propone soluzioni concrete, costruite dal basso, con l’ascolto e il coinvolgimento diretto di chi vive ogni giorno la malattia.
Perché la mielofibrosi non è solo una sfida clinica: è una sfida sociale, organizzativa, psicologica. E affrontarla significa costruire una sanità che non si limiti a curare, ma che sappia prendersi cura.





