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Autori di reato con malattie psichiatriche: «Oltre alle Rems può esistere un percorso di cura e reinserimento sociale che può salvare». La testimonianza di un magistrato che ascolta con il cuore

Ascoltare non solo con le orecchie ma con il cuore può cambiare il percorso di reinserimento sociale di una persona autrice di reato e con malattia psichiatrica o, perlomeno, cambiare il modo in cui vede la vita in un momento particolare della sua vita. Questo tipo di ascolto è stato perseguito nel corso della sua carriera da Giovanni Maria Pavarin, già presidente del Tribunale di sorveglianza di Trieste e Venezia, che ho incontrato al convegno che si è tenuto a Roma il 7 maggio sul tema della psichiatria e della giustizia

Il dottor Giovanni Maria Pavarin ha fatto il magistrato e il magistrato di sorveglianza per moltissimi anni. Ha guardato negli occhi uomuni e donne che hanno fatto i conti con la giustizia e con il loro disturbo psichiatrico. Si è occupato del tema delle residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems) che rappresentano oggi il superamento della pagina chiaro-scura degli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), avendo dovuto gestire le misure di sicurezza per i soggetti assolti per vizio totale o parziale di mente. Ha perciò vissuto tutto il tema del superamento degli Opg, che erano popolati, come ricorda, in condizioni spesso disumane e degradanti da soggetti non imputabili e che dunque venivano assolti. Oggi, nonostante si sia voltata quella pagina, il mondo della giustizia e della psichiatria fanno i conti con lunghe liste d’attesa per l’ingresso nelle Rems (che hanno massimo 20 posti), così lunghe che chi aspetta di entrarci, un brutto giorno di primavera decide di togliersi la vita dietro alle sbarre perché ha perso ogni speranza; con centinaia di persone ancora prive di piani territoriali di reinserimento sociale per uscire dalla Rems; con la difficoltà a garantire un equilibrio tra le esigenze di cura degli autori di reato e di sicurezza della collettività; con la fatica del territorio di accogliere coloro che sono sottoposti a misure di sicurezza. E con la speranza di fornire cure all’esterno nelle comunità terapeutiche alle persone detenute con patologie psichiatriche o con “doppia diagnosi”. Proprio in questo contesto si inserisce il progetto pilota veneto del Centro per la profilazione ed analisi criminologica (CePAC), una possibiile strada per superare le criticità delle Rems.

Dottor Pavarin, chi entra nelle Rems? 

«Chi è portatore di un certo tasso di pericolosità sociale, ma è anche una persona che ha bisogno di cura. Oggi, però, esiste confusione nella profilazione della persona, nel senso che entra nella Rems chi ha commesso il reato da più tempo, chi ha commesso il reato più grave, chi è in custodia cautelare e chi ha avuto la sua sentenza di assoluzione. Questa confusione deve essere superata tramite un coordinamento obbligatorio necessario tra i pubblici ministeri e i giudici di sorveglianza, ma si stenta. La conferenza unificata ha istituito i punti unici regionali (Purg), organi che devono avere un’interlocuzione con i giudici e promuovere forme di coordinamento interregionale, stipulare protocolli operativi, monitorare ogni giorno le liste di attesa esistenti. Ma tutte queste cose sono rimaste sulla carta. La stessa conferenza unificata ha anche creato la cabina di regia presso il tavolo di consultazione permanente. Tutto questo per ora non ha prodotto un significativo mutamento della realtà che viviamo ogni giorno. Ma c’è di più».

Cos’altro? 

«Le Rems sono per legge affidate alla esclusiva competenza sanitaria e hanno un limite numerico di capienza. Poi, rispondono al principio della regionalizzazione, che vuol dire che ogni persona che entra in Rems deve farlo in quella istituita nella regione in cui risiede. Questo ha comportato che molti soggetti che avrebbero dovuto e che dovrebbero entrare in Rems, in realtà restano liberi oppure agli arresti domiciliari o, peggio ancora, in carcere, e questa è la situazione più grave, stare in carcere senza avere un titolo detentivo valido. Voglio ricordare che il nostro paese è stato condannato già due volte per aver violato l’articolo 3 della Convenzione di Roma, perché è disumano e degradante tenere in carcere una persona che non ha titolo per stare in carcere. Per ora il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) si limita a fare la prima assegnazione del soggetto che deve entrare in Rems, al resto ci pensa la sanità. Sono passati due anni dalla importante sentenza emessa dalla Corte costituzionale n. 22 del 2020 in tema di Rems, e non è successo nulla di rilevante. Il sistema informativo per il monitoraggio del processo di superamento degli Opg (Smop) al 31 dicembre 2022 dava conto della perdurante esistenza di liste di attesa, registrava la presenza in Rems di 592 persone, di cui 131 stranieri, e l’apertura in qualche regione di Rems private (due in Piemonte e due in Liguria, una in Calabria, una nelle Marche, una in Puglia e una in Sicilia). Ma intanto sono ancora centinaia le persone in attesa di entrare nelle Rems».  

Cosa può esserci oltre alla Rems?

«Poiché la Rems è una misura di sicurezza detentiva, si può attenuarla passando ad un’altra misura di sicurezza come la libertà vigilata, che potrebbe essere gestita in strutture, anche del privato sociale purché convenzionate col pubblico, che garantiscano una forma di appoggio e di controllo». 

Ci spieghi meglio.

«Molte comunità terapeutiche a “doppia diagnosi” potrebbero essere adeguatamente finanziate per ospitare o i soggetti che escono dalle Rems oppure quelli che aspettano di entrarci. Può accadere che un soggetto destinatario di un’ordinanza di assegnazione in Rems, se è inserito in una comunità dove fare una parte di libertà vigilata prima che si liberi un posto in Rems, veda compensata, sia pure in parte, la sua patologia psichiatrica dalla quale si è ricavato il rischio di commissione di ulteriori reati. Ecco perché credo che sia utile consentire al giudice una maggiore possibilità di sostituire la misura della Rems con la libertà vigilata, che è una misura più tenue, più morbida, che non confisca la libertà personale ma la limita e la condiziona in modo più morbido e più accettabile. Questo ci eviterebbe le condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Va detto, però, che la libertà vigilata presuppone risorse, presenza di strutture e, soprattutto, un adeguato finanziamento da parte dello Stato e quindi dalle regioni. Per questo, il messaggio che rivolgo ai magistrati di sorveglianza è quello di non avere paura di trasformare la Rems in libertà di vigilata e di costruire con la persona autrice di reato e con malattia psichiatrica un rapporto». 

Di che tipo? 

«Dandole la parola e più fiducia; ascoltandola con umanità: capendo chi è e facendo un giudizio prognostico il più coraggioso possibile; facendole capire che si può avere una malattia nel corpo ma anche nella mente; che c’è rispetto della sua umanità; che dispiace per quello che è successo; che si vuole accompagnarla in un cammino di possibile reinserimento. Così facendo si crea un rapporto di fiducia che poi produce i suoi effetti. Se, invece, questa persona viene trattata come un soggetto pericoloso e si pensa che, siccome l’ha fatto una volta è candidata a rifarlo per sempre, si recide ogni forma di contatto. Invece, queste persone vanno considerate e caricate di una speranza positiva. L’umanità sta alla base di tutto. Questo tipo di ascolto, nella mia esperienza, mi ha dato anche qualche buon frutto».

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