Uno studio australiano suggerisce che un maggiore consumo di proteine vegetali sia legato a una vita più lunga e a un minor rischio di malattie croniche.
Una dieta basata su alimenti vegetali, al posto di un consumo eccessivo di cibi animali, potrebbe aiutare a vivere più a lungo. È la conclusione alla quale è arrivato un gruppo di ricercatori del Charles Perkins Centre dell’Università di Sydney dopo aver passato al setaccio 57 anni di statistiche sull’alimentazione e la salute in 101 Paesi. Il lavoro, uscito su Nature Communications, intreccia due grandi banche dati: i registri FAO sull’offerta alimentare nazionale (1961-2018) e le tabelle dell’ONU che descrivono natalità, mortalità e aspettativa di vita nelle stesse nazioni.
Quando si correggono le differenze di reddito, istruzione, accesso alle cure e altri fattori sociali, emerge un quadro chiaro:
- nei bambini sotto i cinque anni la disponibilità di proteine e grassi animali – carne, latte, uova – continua a fare la differenza, abbassando la mortalità infantile;
- negli adulti, invece, i Paesi dove la quota di proteine vegetali è maggiore (India, Pakistan, Indonesia, parti dell’Africa occidentale) mostrano una speranza di vita più alta di quelli dove dominano bistecche e latticini (Stati Uniti, Australia, Argentina).
Non si tratta di un confronto tra menù individuali, ma di una fotografia su larga scala dei modelli alimentari nazionali e del loro legame con la durata media della vita.
Le proteine animali arrivano spesso assieme a grassi saturi e, nel caso della carne rossa o lavorata, a composti che favoriscono infiammazione e aterosclerosi. Quelle vegetali, al contrario, portano fibre, antiossidanti e grassi insaturi che proteggono cuore, vasi e metabolismo. Molte ricerche su singoli individui hanno già mostrato che spostare l’ago della bilancia verso i vegetali riduce il rischio di infarto, diabete di tipo 2 e alcuni tumori. Lo studio australiano estende l’osservazione al livello di popolazione, dando consistenza statistica a un principio semplice: la qualità delle proteine conta quanto la quantità.
Gli autori, guidati dall’ecologo evoluzionista Alistair Senior e dalla dottoranda Caitlin Andrews, invitano però alla prudenza nel trarre ricette assolute. Nei primi anni di vita l’apporto di proteine animali resta un pilastro della crescita, specie nei Paesi a basso reddito dove l’insufficienza proteica è ancora diffusa. «Il nostro lavoro non demonizza carne e latticini» sottolinea Senior. «Sottolinea piuttosto che, superata l’infanzia, aumentare la quota di legumi, soia, noci e cereali integrali conviene sia alla salute individuale sia all’ambiente».
Gli allevamenti intensivi usano più terra, acqua e mangimi rispetto alle coltivazioni di vegetali e producono una quota significativa di gas serra. Spostare le diete di un Paese anche solo del 20-30 % verso fonti vegetali può ridurre in modo sensibile l’impronta carbonica senza sacrificare il fabbisogno proteico. La coincidenza con un possibile aumento dell’aspettativa di vita rende l’argomento ancora più forte per i governi che puntano a linee guida alimentari compatibili con gli obiettivi climatici.
Essendo uno studio ecologico, non può stabilire un rapporto di causa-effetto a livello individuale: sapere quanta soia arriva nel Paese non dice quanta ne mangia ciascuno di noi. Tuttavia, il fatto che i dati coprano oltre mezzo secolo rende i risultati più solidi, perché limita l’influenza di mode alimentari passeggere o cambiamenti temporanei nei consumi.
Resta ancora da chiarire quanto i benefici osservati siano legati non solo alla quantità di proteine vegetali consumate, ma anche alla qualità complessiva della dieta, come il maggiore apporto di frutta e verdura o il minor consumo di zuccheri e sale. Non è infatti certo se l’effetto positivo dipenda da un singolo gruppo di alimenti, come i legumi piuttosto che i cereali, oppure dall’equilibrio dell’intero regime alimentare. Inoltre, abitudini culturali come i digiuni religiosi o le diete tradizionali con poca carne potrebbero avere un ruolo nel favorire una maggiore longevità.
Gli autori auspicano studi approfonditi su gruppi di popolazione e sperimentazioni controllate per capire quali effetti reali possa avere una dieta più vegetale, passo successivo necessario per tradurre gli indizi statistici in consigli clinici.
Per chi voglia mettere in pratica i risultati senza attendere linee guida ufficiali, gli esperti suggeriscono tre mosse a basso rischio e alto potenziale:
- tenere la carne rossa a uno-due pasti alla settimana e scegliere tagli magri;
- sostituire almeno parte del macinato di hamburger o ragù con lenticchie, fagioli neri o soia testurizzata;
- portare in tavola noci o semi oleosi (mandorle, pistacchi, semi di zucca) al posto di snack salati industriali.
Scelte alimentari più consapevoli, adottate su larga scala, potrebbero non solo allungare la vita ma anche ridurre significativamente l’impatto ambientale.