Sin dai miei primi approcci in ambito sanitario rimasi particolarmente impressionato dalle modalità di cura e dal rapporto tra le persone sofferenti e gli Operatori tutti. La cura, nella maggior parte dei casi, era, ed è, rivolta esclusivamente alla semplice terapia (farmacologica, chirurgica etc) senza tener in nessuna considerazione la persona in toto, ovvero non notavo che ci si prendesse cura delle persone non delle malattie. Causa di tutto ciò la visione cartesiana che aveva scisso la persona tra res cogitans e res extensa che ha procurato non poche problematiche, specie in ambito sanitario, non riconoscendo la persona come una totalità organizzata e costituita da parti non separate.
Tutto ciò risultava abbastanza strano in quanto l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha definito, non pochi anni fa, la salute come uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattie o di infermità. L’organismo umano è da considerarsi come una totalità organizzata. Totalità nella quale l’intero è superiore rispetto alla somma delle singole parti, un sistema vivente i cui componenti sono interconnessi ed interdipendenti.
La salute è un evento multidimensionale che implica aspetti fisici, psicologici e sociali non scindibili. Ad esempio, la malattia fisica può trovare giovamento da uno stato d’animo positivo o da un sostegno di natura sociale. “Sono malato ma mi sento bene”, situazione paradossale per cui persone affette da malattie disabilitanti manifestano un benessere soggettivo buono, nonostante la malattia. Come pure problematiche di natura emotiva o di isolamento sociale possono creare malessere nonostante l’assenza di malattia vera e propria.
Non a caso quando il filosofo Heidegger parla di cura usa il termine besorgen, che significa prendersi cura. E ci si prende cura di un altro con quello che lui chiama dasein, un esserci, cioè prendersi cura significa porsi il problema del vivente. Al contrario, col passare degli anni si è assistito sempre più al disperdersi della relazione medico/operatori sanitari e malati. Ma qualcosa accade. A partire dagli anni novanta dello scorso secolo, sull’onda delle riflessioni condotte dagli psichiatri Good e Kleinman, che sottolinearono l’importanza delle storie come strumenti di valutazione dell’efficacia delle cure e di costruzione di una solida relazione tra medico/operatori sanitari e pazienti, nasce la Medicina Narrativa, NBM, medicina cioè basata sulla narrazione ad opera di Rita Charon, medico internista e docente di Clinica Medica alla Columbia University di New York. La Medicina Narrativa consente l’attiva adesione del paziente alla diagnosi ovvero a raggiungere la tanto agognata compliance. La narrazione diventa lo strumento fondamentale per acquisire, comprendere ed integrare tutte le componenti oggettive e soggettive che intervengono nella malattia e dunque, cosa importantissima, nel processo di cura, personalizzato e condiviso. Una storia di cura che finalmente ha come protagonista la persona in quanto tale, non il malato. La pratica clinica ricorrente evita di confrontarsi con l’irriducibile individuabilità della persona e identifica l’aspetto esteriore del sintomo, anzicchè entrare in contatto con la persona bisognosa di essere curata.
Ancor oggi la cura è parcellizzata e iper-specializzata, a scapito di una presa in carico olistica e globale del paziente. E questo non tiene in nessun conto, come detto, di quanto affermato dall’OMS. L’operatore presume di sapere cosa cercare prima ancora di incontrare il suo paziente. Non lo guarda negli occhi, lo vede spesso attraverso un’immagine, che è quella del sapere cristallizzato della medicina, della scienza in generale, in modo da mettere a fuoco la malattia, l’anomalia, l’insolito. Ma l’immagine è opaca ed impedisce la visione della persona, del paziente, del rapporto che questi ha con la sua malattia, e del posto che questa persona abita nel mondo. Come scrive lo psichiatra e psicoterapeuta Giovanni Stanghellini, nel suo libro L’amore che cura, quello del medico per il suo paziente è, in questi termini, un amore idolatra. Se il paziente corrisponde a quella immagine, allora il medico ama ciò che vede. Altrimenti ne è disorientato, sorpreso e, non sapendo affidarsi alla vita non compresa, fallisce nel cogliere nella malattia del paziente una parte della sua esistenza, il cui corso non si esaurisce in una risposta sulle cause e sui rimedi della malattia ma prosegue alla ricerca di un dialogo in cui la persona vuole guardare l’altro e in cui l’altro stesso vuole guardare in volto la persona che ha di fronte. La terapia medica si basa sulla diagnosi che pone la malattia come esterna ed è finalizzata a rimuovere il male. Altra cosa è la cura che, invece, si basa sull’intimità e sul riconoscimento del significato personale del male, del modo in cui la persona e il male sono diventati quasi indiscernibili. In questa esperienza di intimità, un Io e un Tu si incontrano e il male del paziente diventa parte dell’esistenza di entrambi di cui si cerca di trovare il significato. Questa esperienza di intimità con la persona del medico è la condizione di possibilità di una intimità con la propria malattia. L’intimità con l’altro, la relazione terapeutica, il suo riconoscimento, aiuta l’accesso al fondo della piega dove la malattia non appare più come un corpo estraneo da rimuovere ma come parte della propria esistenza, come condizione di possibilità della cura del sé.
Oggi domina la Ragione, che è una macchina delle somiglianze e delle differenze il cui scopo è resistere al disordine, escludendo la singolarità dell’altro. Il suo schema è incapsulato nella frase “Tu sei come…”, e quando ciò non può essere riscontrato il tutto diventa mostruoso, perché solo il mostro non somiglia a niente. La macchina delle differenze ha lo stesso scopo di placare il disordine, lo sconosciuto, e lo fa separando, sminuzzando, parcellizzando. Scompone la persona nelle sue componenti più intime non per personalizzare il rapporto, la cura, ma per attribuire con maggiore affidabilità quella persona in una determinata categoria. Si agisce, insomma, in base ad una ratio binaria, secondo lo schema aut aut, che si esplicita in tutta una serie di dicotomie: sano/malato, esogeno/endogeno, psichico/somatico, soggetto/oggetto, organico inorganico,. Le differenze aiutano a pensare, certo, ma applicate al pensare per categorie perdono di vista l’individuo nella sua essenza. Il risultato è sempre lo stesso, depersonalizzazione della persona che viene catalogata come un oggetto da rimettere a posto.
C’è oggi la certezza che le competenze narrative possono fortificare e trasformare la pratica clinica e renderla più efficace perché semplicemente il paziente si sentirà ascoltato, compreso e riconosciuto come persona e non come diagnosi. Il sanitario che si prende cura del paziente non si pone come osservatore esterno ma come partecipante attivo. Allo stesso modo al paziente si restituisce un ruolo da protagonista. Il percorso terapeutico viene costruito insieme al paziente. Senza una comprensione autentica dell’individualità del malato, la medicina potrà raggiungere obiettivi di tipo tecnico ma le mancherà sempre qualcosa: personalizzazione, empatia, umanizzazione.
Il mio avvicinamento alla Medicina Narrativa fu opera del compianto Prof. Umberto Giani, docente di Statistica e Informatica Medica dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e di questo gliene sarò sempre grato.
La Medicina Narrativa è una innovativa tecnica di comunicazione sanitaria che pone attenzione alle storie di malattia per comprendere in modo più approfondito i pazienti e le loro patologie, collocandoli nel loro specifico contesto. La narrazione, oltre che restituire ai pazienti la centralità, offre agli Operatori Sanitari la possibilità di avere una visione più completa e approfondita della malattia. Il significato costruito da questa relazione porta ad investigazioni anamnestiche più profonde attraverso l’analisi dei vissuti del paziente. Il suo sviluppo negli USA nasce dalla costatazione che, a fronte di tecnologie di diagnosi e analisi sempre più sofisticate, è passata in secondo piano la capacità da parte dei medici di ascoltare i pazienti, leggendo nelle loro parole quegli elementi indispensabili per il trattamento e la cura della malattia.
Il nucleo centrale di questa metodologia è il processo di ascolto del paziente mediante una tecnica di conversazione molto raffinata che conduce a capire, mediante l’ascolto delle proprie emozioni e di quelle del paziente, il significato della sua pratica clinica.
“Quante volte un paziente cerca di riferire al medico cosa è accaduto durante la malattia” ha dichiarato la dottoressa Charon “ e il medico lo interrompe chiedendogli “ Che tipo di dolore ha provato, era acuto o lieve?”, impedendo al paziente di raccontare la sua storia, perdendo così ogni accuratezza diagnostica, perdendo il contesto. La narrazione, il saper raccontare e il saper ascoltare delle storie è il modo attraverso il quale si istaurano le relazioni umane. Narrare significa saper dare forma all’esperienza, organizzarla, interpretarla in modo da poterla comunicare e condividere con chi ci ascolta.
Nella raccolta dell’anamnesi si trascura il vissuto personale che rende quel paziente unico. Il linguaggio tecnico è una specie di maschera dietro la quale si nasconde e viene rimossa la componente emozionale di cura. La raccolta dei dati clinici può essere sufficiente per inquadrare, diagnosticare ma non è sufficiente per prendersi cura del paziente in senso globale, comprenderne il vissuto e i bisogni espressi e inespressi.
Ma la Medicina Narrativa (NBM) non vuole essere in nessun caso il superamento dell’ EBM, (Evidence Base Medicine) che è fondamentale per dare risposte terapeutiche affidabili e fondate sulla verifica scientifica ma sostiene la necessità di non appiattire la cura del singolo paziente ad una astrazione basata sulle statistiche. La Medicina Narrativa è un processo di costruzione, insieme al paziente, di significati condivisi sulla salute e sulla malattia, che può incidere profondamente sulla diagnosi e sul trattamento. Processo che può essere, di per sé, terapeutico o contribuire al miglioramento o all’accettazione della malattia e delle cure.
L’antica tradizione perduta dell’ascolto e delle storie dei pazienti dovrebbe essere recuperata sia nell’insegnamento che nell’esercizio della malattia. Oggi, spesso si saltano i convenevoli e, cartella clinica alla mano, si va dritti alla radice del problema. La Medicina Narrativa è condivisione, è riconoscere al paziente il diritto alla partecipazione, restituendo dignità al paziente.
Al contrario, generalmente, la caratteristica dei processi di cura, ovunque essi avvengono, ospedali, ambulatori, etc, è data dall’attenzione a singole parti corporee ed alle patologie ad esso collegate. Tutto questo, quindi, senza tenere in nessun conto il diretto interessato al processo di cura, ovvero la persona che ha subito un evento patologico.
Come detto e come si è ricordato la salute viene definita dall’OMS, l’Organizzazione Mondiale della Sanità, come uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale e non semplicemente assenza di malattie o di infermità.
Occorre quindi approcciarsi alla cura non come un atto rivolto ad un oggetto da mettere a posto, come se si trattasse di una semplice macchina ma come un atto rivolto ad una persona.
La Medicina Narrativa pone attenzione al vissuto del paziente per comprenderlo e curarlo. Questa modalità di cura incide profondamente sui processi che stimolano salute. Un ospedale francese ha assunto un consulente letterario per insegnare a tutto il personale la M.N. Non credo che in Italia si arrivi a tanto ma almeno occorrerebbe fare in modo che tutto il personale sanitario possa essere educato per attuare questa strategia di cura.
E qui occorrerebbe aprire un altro file sulla formazione di coloro che operano per la salute delle persone. Ma di questo si parlerà successivamente. Il mio impegno costante nell’insegnamento di Psicologia Generale nei Corsi di Laurea delle Professioni Sanitarie è sempre volto in tal senso. E’ solo formando Operatori che sappiano considerare il malato come persona che si possono migliorare i processi di cura.
La concezione di una medicina che vedeva la persona ridotta ad un insieme di organi come pezzi diversificati, ereditata dal dualismo cartesiano, deve essere superata da una visione fenomenologica proveniente da filosofi quali Husserl, Heidegger e psicopatologi quali Jaspers, Biswanger, Minkowski e psichiatri italiani quali Carniello, Callieri, Borgna e tanti altri. Visione fenomenologica che finalmente mette in risalto un corpo che ha il proprio vissuto nel mondo. Da qui l’impossibilità delle persone ridotte ad oggetti.
Ma perché si continua a curare non tenendo in nessuna considerazione quanto detto? Perché è molto più semplice curare le persone come oggetti. Più semplice ovviamente per chi cura non per chi è curato. La medicina servendosi della scomposizione mente/corpo effettuata da Cartesio ha depersonalizzato il curato. Lo schema è incapsulato nella frase “ Tu sei come” , cioè la medicina cataloga ed amalgama senza tener conto della individualità delle persone.
Un sistema cambia, però, se cambia la modalità comportamentale, se ci si educa a nuovi indirizzi epistemologici che devono essere sentiti non imposti. Come detto occorrerebbe cambiare il sistema formativo. Solo quando tutto il personale sanitario verrà formato a considerare la persona nella sua integrità, sarà possibile arrivare ad un nuovo modello di cura.
Due considerazioni finali che sono oltremodo chiarificatrici di quanto il servizio sanitario dovrebbe avere un cambiamento profondo e recuperare il prendersi cura delle persone. La prima è data dal precursore della moderna concezione di salute: Ippocrate di Cos (IV secolo a.c.) che fu il primo a sostenere che l’organismo è unitario. Secondo Ippocrate la malattia non è semplice affezione di un singolo apparato ma di tutto un sistema. E scrive “ Il medico deve studiare i costumi, il modo di vita, l’età di ognuno, i discorsi, i silenzi, i pensieri, il sonno etc, perché il più grande errore che si commette è separare la psiche dal soma” (IV secolo a.c.). La seconda considerazione è data dalla costatazione che sono diventati strenui sostenitori della Medicina Narrativa insigni docenti delle Facoltà di Medicina e illustri Primari Ospedalieri che hanno avuto la sfortuna di incorrere in un evento patologico ed hanno potuto constatare quanto sia deleterio essere trattati come numeri e non come persone.
Prof. Vincenzo Avallone – Psicologo Clinico