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Sanità, non solo soldi ma un cambio di paradigma

Per salvare il Servizio sanitario pubblico non c’è dubbio che per prima cosa sia indispensabile adeguare il finanziamento del sistema in relazione al Pil almeno alla media dei Paesi Ocse. Nemmeno questo, tuttavia, basterebbe se non si cambia approccio 

Secondo l’ultimo rapporto FNOMCeO-Censis, il Servizio sanitario, infatti, non è minacciato solo da risorse insufficienti, ma anche dall’approccio aziendalista che fa prevalere i vincoli di bilancio su criteri di valutazione basati sulla necessità e l’appropriatezza delle prestazioni per la salute dei cittadini. 

La Federazione nazionale degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri ha voluto presentare il documento la scorsa settimana a Roma nell’ambito di un evento il cui titolo è esplicativo: “’Dall’economia al primato della persona”. E in una nota la Federazione aggiunge: “Le diffuse esperienze degli italiani di liste di attesa molto lunghe per l’accesso a prestazioni sanitarie nelle strutture pubbliche o del privato accreditato, e il relativo inevitabile ricorso al privato puro per accorciare i tempi di accesso, o anche quelle in strutture e servizi intasati e non in linea con gli standard attesi di qualità, hanno reso drammaticamente attuale l’urgenza sociale di un diverso approccio alla sanità”.

L’aumento del fabbisogno (legato soprattutto – ma non solo – all’invecchiamento della popolazione) cui corrisponde, invece che un potenziamento, un definanziamento del sistema, associato alla priorità del bilancio sui bisogni dei pazienti comporta inevitabilmente un aumento della spesa “out-of-pocket” da parte delle famiglie. Ciò compromette così uno dei principi fondamentale del sistema sanitario italiano, quella base di universalità che dovrebbe garantire a ciascuno le prestazioni necessarie, indipendentemente dalle sue possibilità.

Stipendi in calo, liste d’attesa in crescita

Dopo quarant’anni dall’introduzione dell’idea di una gestione manageriale dei servizi per la salute, la maggioranza degli italiani si dice preoccupata della deriva che ha preso il sistema. Negli ultimi 24 mesi, infatti, direttamente o tramite familiari, il 44,5% degli italiani intervistati per il rapporto FNOMCeO-Censis ha sperimentato situazioni di sovraffollamento in reparti ospedalieri o strutture sanitarie, una percentuale che scende sotto il 40% solo al Nord-Est, ma arriva al 46,8% al Sud e nelle Isole. 

È un circolo vizioso che si autoalimenta: un’offerta inadeguata esaspera i cittadini, favorendo litigiosità legale e aggressività nei confronti degli operatori sanitari, che a loro volta lavorano in condizioni costanti di stress, spesso in burn-out, a fronte di retribuzioni nettamente inferiori a quelle dei colleghi di altri Paesi.

Nel pubblico, per esempio, le retribuzioni dei medici dal 2015 al 2022 sono scese, in termini reali, del 6,1%. Come dar torto quindi ai 180.000 professionisti (131.000 medici e circa 48.000 infermieri) che dal 2000 al 2022 sono emigrati all’estero? O che, pur restando resistenti in Italia, lavorano come transfrontalieri in Svizzera o in Francia? Non sarà certo aumentando i turni nel weekend o alzando l’età pensionabile a 72 anni per i medici e a 70 anni per gli infermieri, per quanto su base volontaria, che si capovolgerà la situazione. 

Tutto ciò, è chiaro anche ai cittadini, rende poco attrattivo l’impiego nella pubblica amministrazione per i professionisti della sanità, al termine di un percorso di studio lungo e impegnativo, con orari di lavoro, turni, precarietà che poco si conciliano con le esigenze della vita privata e familiare, per non dire con la semplice salvaguardia della propria salute. 

Specialità poco appetibili

Tra il 2012 e il 2022 il ricorso al lavoro a tempo determinato e interinale è aumentato del 75,4% e la spesa della pubblica amministrazione per lavoro a tempo determinato, consulenze, collaborazioni, interinale e altre prestazioni di lavoro sanitarie e sociosanitarie provenienti dal privato è stata pari a 3,6 miliardi di euro nel 2022, con un incremento del +66,4% rispetto al 2012.

Non solo: deriva proprio dalla scarsa qualità e dallo scarso riconoscimento economico e sociale del lavoro nelle strutture pubbliche la poca attrattività delle scuole di specializzazione per cui è meno facile trovare lavoro nel privato, ovvero medicina di emergenza/urgenza, anatomia patologica, virologia e microbiologia, radioterapia. Se ogni anno molte di queste borse non vengono assegnate, bisognerebbe cercare di renderle più appetibili, per esempio aumentandone il valore economico, e programmando scaglioni di stipendio maggiore per chi sceglie le specialità più difficili da integrare con un’attività privata. È questa una delle proposte formulate dal presidente del Consiglio superiore di sanità Franco Locatelli in un incontro che si è tenuto sabato 7 luglio a Clusone, in provincia di Bergamo, organizzato dall’Associazione Il Testimone di Parre (BG). 

La ricerca del CENSIS fa emergere priorità chiare: aumentare le retribuzioni dei medici (e degli infermieri, anche se il rapporto analizza solo le figure mediche) per allinearle a quelle di Paesi europei paragonabili al nostro, investire più risorse pubbliche sulle strutture per ampliare la capacità di erogare prestazioni e, soprattutto, ridare centralità al medico restituendogli autonomia decisionale sull’appropriatezza delle prestazioni, oggi limitata dai molteplici vincoli di budget. 

Tutto ciò è indispensabile purché si accompagni a uno sforzo di aggiornamento e a un appello al senso di responsabilità dei professionisti e dei cittadini, per evitare di cadere nella trappola della medicina difensiva e del consumismo sanitario, in una spirale di spesa incontrollata verso prestazioni non necessarie o inappropriate, che già si stimano essere in Italia sopra il 20% del totale. Prestazioni inappropriate che, non dimentichiamolo, oltre allo spreco, talvolta danneggiano, invece di favorire, la salute dei pazienti.

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