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Scoperte le tracce molecolari predittive della vulnerabilità.
Lo studio sull’invecchiamento “fragile” svolto da un team di ricercatori italiani del CEINGE e dell’Università Vanvitelli, in collaborazione con l’Università di Pavia e l’IRCCS Mondino.

La fragilità è una sindrome clinica caratterizzata dal declino di molteplici funzioni fisiologiche del corpo umano, comprese le abilità fisiche, cognitive e sociali. Il significativo aumento dell’aspettativa di vita avvenuto negli ultimi decenni ha reso la fragilità una problematica sempre più comune nei paesi occidentali, che devono ora fronteggiare l’enorme impatto socio-economico legato all’assistenza della popolazione anziana più fragile.
Un team di ricercatori italiani composto da neuroscienziati, biochimici, geriatri e neurologi ha scoperto l’esistenza di una nuova traccia neurochimica che correla i livelli sanguigni degli aminoacidi D-serina e glicina con l’invecchiamento fragile. La ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica Translational Psychiatry (Nature Group)*, è stata coordinata da Alessandro Usiello, direttore del Laboratorio di Neuroscienze Traslazionali del CEINGE Biotecnologie Avanzate Franco Salvatore e professore ordinario di Biochimica Clinica presso l’Università della Campania Luigi Vanvitelli, e da Enza Maria Valente, responsabile del Centro di Ricerca in Neurogenetica della Fondazione Mondino di Pavia e professore ordinario di Genetica Medica presso l’Università di Pavia.
In particolare, lo studio ha evidenziato che i soggetti anziani fragili hanno livelli ematici di D-serina più elevati rispetto agli anziani sani. I ricercatori hanno inoltre scoperto che negli anziani fragili il rapporto tra D-serina e serina totale (un indice di conversione tra le due forme di questo aminoacido fisiologicamente presenti nel corpo umano) e i livelli ematici di glicina rispecchiano la gravità dei sintomi cognitivi e depressivi: i pazienti con maggiori difficoltà cognitive e affetti da depressione avevano livelli più elevati dei due parametri biochimici nel sangue rispetto agli anziani con abilità cognitive conservate e non depressi.
Infine, stratificando la popolazione per sesso, i suddetti risultati sono stati confermati selettivamente nelle pazienti di sesso femminile, ma non in quelli di sesso maschile. «Questa scoperta apre nuovi scenari di applicazione della cosiddetta “medicina di genere” nell’ambito della geriatria – afferma il professor Usiello –. I prossimi step saranno estendere lo studio di Biochimica Clinica a casistiche di pazienti più ampie e, al contempo, indagare il ruolo della nutrizione ed i meccanismi biologici responsabili delle variazioni emerse nello studio, e verificare quindi se le alterazioni osservate nei livelli sanguigni di D-serina e glicina nei soggetti fragili rispecchiano una sofferenza cerebrale, oppure se sono principalmente legati a cambiamenti nel metabolismo degli organi periferici».
Gli studi clinici e di laboratorio si sono avvalsi, tra gli altri, anche del contributo di due talentuosi dottorandi di ricerca Alberto Imarisio (Università di Pavia) ed Isar Yahyavi (Università Vanvitelli), prime firme congiunte del lavoro, finanziato dalla Fondazione Cariplo e dal Progetto PNRR-MNSESYS.

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