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“Anche solo tre minuti” – Come la meditazione quotidiana può cambiare la tua vita

Dalla corsa quotidiana al ritorno a sé: Luca Gonzatto racconta come pochi minuti di presenza possano diventare un atto rivoluzionario contro stress, burnout e auto-sabotaggio.

Viviamo in una società che corre sempre più in fretta, trascinando con sé ansia, stress e senso di smarrimento, ma quando vorremmo iniziare ad approcciarci alla meditazione la nostra mente inizia a frenarci con un sacco di scuse: “Non ho tempo”, “Non so come si fa”, “Non fa per me”. Risultato: non iniziamo mai o, se troviamo la motivazione per iniziare, alla terza sessione abbiamo già gettato la spugna.  E allora, come si fa? 

Ne parliamo con Luca Gonzatto che, da manager stressato ad autore bestseller e divulgatore del benessere interiore, ha fatto della meditazione quotidiana uno strumento alla portata di tutti. 

Luca, quali sono i segnali e i campanelli di allarme per capire che stiamo vivendo un brutto momento di crisi e burnout?

Potrei risponderti con un elenco ufficiale, da manuale: ti svegli già stanco, ogni cosa è un peso, anche rispondere a una mail diventa un’impresa titanica. 

Ti dimentichi cosa vuol dire riposare davvero (spoiler: non è guardare serie tv mentre scrolli Instagram). Ti arrabbi per sciocchezze. 

E senti che, dentro, qualcosa si è spento. Ecco. Per me, questo è il vero campanello d’allarme: quando la vita non la vivi più, te la fai solo passare addosso. Quando passi le giornate a sognare il weekend, le ferie, la prossima fuga. Ma siamo davvero sicuri che la soluzione sia sempre fuori? Che basti aspettare il sabato, un volo low-cost, o — come va di moda adesso — mollare tutto e trasformarsi in monaci digitali a Bali? Per me, no. Perché sì, qualche compromesso nella vita serve. Ma non tutto deve diventare un compromesso. Epitteto lo diceva meglio di me: “Non conta ciò che accade, ma come lo vivi.” 

E allora serve farsi una domanda semplice, ma scomoda: “Sto correndo… ma dove sto andando? E chi ha scelto questa direzione? Io, o il pilota automatico fatto di doveri, aspettative e notifiche?” Il burnout, per me, è stato un punto di rottura. Ma anche una benedizione travestita da crollo. Mi ha costretto a fermarmi. Ad ascoltarmi. A ridarmi il permesso di scegliere. Non ho cambiato vita. Ma ho cambiato ritmo. Ho iniziato a difendere piccoli spazi di lentezza, di silenzio, di ascolto. E lì ho capito una cosa che oggi sento profondamente: Fermarsi non è perdersi. È finalmente ritrovarsi. E non lo dico solo per esperienza personale. 

Ed è impressionante perché uno studio della Harvard Business Review ha evidenziato che più del 70% dei lavoratori si sente “emotivamente svuotato” e “mentalmente esausto” almeno una volta alla settimana. L’OMS ha inserito il burnout tra le sindromi legate al lavoro, con sintomi come esaurimento cronico, cinismo e calo drastico dell’efficacia. Poi secondo uno studio dell’American Psychological Association, l’eccessiva esposizione a stimoli, informazioni e multitasking abbassa drasticamente le nostre capacità cognitive, generando overload mentale e senso costante di inadeguatezza.

E in Italia? I dati parlano chiaro: secondo il CENSIS, oltre il 76% dei lavoratori manifesta sintomi legati a stress prolungato, ansia e affaticamento emotivo. Il punto quindi non è solo il lavoro o la fatica… Ma il fatto che abbiamo smesso di ascoltarci. 

Ecco perché serve fermarsi. Non per diventare più produttivi — quello è l’effetto collaterale ben dimostrato anche in numeri di quanto conviene alle aziende. Ma per tornare vivi. Anche solo per tre minuti al giorno. Perché a volte basta davvero poco per iniziare a ricordarsi chi siamo. E smettere di vivere in apnea.

Oltre alla mancanza di tempo e metodo, ci sono altre dinamiche di autosabotaggio che mettiamo comunemente in atto?

Oltre alla classica scusa del “non ho tempo” — che, diciamolo, è spesso solo un modo gentile per dire “non è una priorità” — ci sono molte altre forme di autosabotaggio che mettiamo in atto ogni giorno. E parlo con cognizione di causa: ci sono cascato anche io, con tutte le scarpe. Più di una volta. E in fondo è umano. Se non hai chiaro perché dovresti iniziare, è difficile restare costanti in qualsiasi cosa. La motivazione non arriva dal cielo come una folgorazione mistica. Si costruisce. Un gesto alla volta. Ma torniamo ai nostri boicottaggi preferiti. Uno dei più subdoli? Il perfezionismo. C’è una frase di James Clear, autore di Atomic Habits, che mi ha aperto gli occhi: «Se vuoi padroneggiare un’abitudine, inizia con la ripetizione, non con la perfezione.» Ecco. Noi invece ascoltiamo quella vocina che ci sussurra: “Se non riesco a farlo bene, tanto vale non farlo affatto.” E così rimandi. Perché non hai abbastanza silenzio. Perché ti manca il cuscino giusto. Perché l’incenso non è quello al gelsomino raccolto da monaci tibetani in luna crescente. Il risultato? Non ti siedi mai. Ma la verità è che non serve meditare bene. Serve meditare. Anche storti. Anche assonnati. Anche per tre minuti. La pratica non è una performance. È un atto di ritorno. Un “ciao” gentile a te stesso. Poi c’è lei, la regina dell’autosabotaggio: la procrastinazione. Quella che si traveste da buon senso: “Lo faccio domani, quando avrò più tempo… più energia… meno casino nella testa.” Peccato che quel domani non arrivi mai. E intanto ti perdi l’unico tempo che conta davvero: oggi. Ecco, per me il vero autosabotaggio è proprio questo: dimenticare che ti meriti tempo. Ti meriti spazio. Ti meriti silenzio. Non perché sei già centrato, saggio o illuminato. Ma semplicemente perché sei vivo. E questo, da solo, è un motivo più che sufficiente per iniziare. Anche adesso. Anche solo per tre minuti.

Consapevolezza e meditazione: come descriverebbe questi due concetti per renderli meno astratti?

Immagina di essere in macchina. Solo che… non sei tu a guidare. Qualcun altro tiene il volante. Tu sei sul sedile del passeggero, ma pensi di essere al comando. 

Quello che guida è il pilota automatico: abitudini, pensieri ricorrenti, ansie, aspettative degli altri, notifiche. E tu? Vai. Corri. Reagisci. Ma senza sapere davvero dove, perché e da chi stai andando. 

La consapevolezza è quando, finalmente, ti accorgi che sei in macchina. E che non stai guidando tu. È il momento in cui ti svegli, anche solo per un attimo, e dici: “Aspetta un secondo… cosa sto facendo? Perché lo sto facendo? Come mi sento davvero adesso?” È come togliersi gli occhiali da sole dopo ore: ti acceca un po’, ma vedi finalmente nitido. La meditazione, invece, è il momento in cui scendi dal sedile del passeggero… e ti rimetti al volante. Con presenza. Un respiro alla volta. Anche se piove, anche se ci sono i fulmini. Non è stare fermi a far fluttuare i pensieri. È riprendere il controllo della tua attenzione. Allenarla. Dirle: “Adesso resti qui. Non scappi nel futuro, non ti agiti per il passato. Resta.” Anche solo per tre minuti. E in quei tre minuti succede qualcosa: La corsa rallenta. La mente si fa meno nebbiosa. E ti ricordi chi sei, sotto tutte le urgenze. In un mondo che ci vuole costantemente altrove, fermarti è un atto rivoluzionario. E meditare è come dire al mondo: “Aspetta un attimo. Prima ci sono io.”

È anche autore del libro “Chi si ferma si ritrova” (BUR Rizzoli), vincitore del Trofeo Alato del Premio Letterario Città di Cattolica, con cui accompagna i lettori in un viaggio di consapevolezza in soli pochi minuti al giorno. Un titolo controcorrente… 

Siamo cresciuti con l’idea opposta: “Chi si ferma è perduto.” Un detto talmente radicato da sembrare innocuo… eppure era lo slogan di un’epoca oscura: il fascismo. (E già questo dovrebbe farci alzare un sopracciglio.) Io invece credo — per esperienza personale e professionale — che fermarsi oggi non sia un lusso. È una necessità. Per noi, per chi ci sta vicino. Persino per il pianeta. Non per diventare monaci. Non per fuggire dal mondo. Ma per viverlo meglio. Per tornare presenti. Anche solo per tre minuti al giorno. Il libro nasce da qui. Dal bisogno di un metodo semplice, umano, trasformativo. Niente incensi sacri, niente cuscini da 200 euro, niente Himalaya. Solo tu. Il tuo respiro. E un po’ di onestà. Perché oggi abbiamo bisogno di strumenti che funzionino nella vita vera: Tra figli da accompagnare, mail a cui rispondere, bollette da pagare, capi da gestire, lavatrici da stendere. Ma soprattutto — e lo dico con forza — in mezzo a un bombardamento costante di stimoli. Esterni, certo: notifiche, impegni, aspettative. Ma anche interni: pensieri che non si fermano mai, giudizi, ansia, confronto, autocritica. Il problema? È che non sappiamo più stare con noi stessi. C’è uno studio del 2014 che lo dimostra in modo spiazzante: ad alcuni partecipanti è stato chiesto di restare soli per 15 minuti, senza stimoli. Solo silenzio. Solo loro. Avevano però la possibilità di premere un pulsante che dava una scossa elettrica. Il 67% degli uomini e il 25% delle donne… si sono dati una scossa pur di non stare nel silenzio con sé stessi. Sì: ci facciamo del male pur di non ascoltarci. E allora il punto non è solo rallentare. Il punto è disintossicarsi. Dalla corsa. Dall’iperconnessione. E soprattutto da quel rumore di fondo che non ci molla mai. Ecco perché dico che tre minuti al giorno possono cambiare tutto. Sono uno spazio sacro. Una ribellione gentile. Un ritorno a casa. Perché, come scrivo nel libro, fermarsi non è perdersi. È l’unico modo per ritrovarsi. E poi — sì — magari ricominciare a correre. Ma con più chiarezza. Più potenza. Più libertà.

Nel libro propone, infatti, un metodo “semplice e divertente” per meditare dai 3 ai 13 minuti al giorno. Davvero può bastare così poco?

Potrei raccontarti decine di storie di persone che hanno tratto beneficio da questo approccio. E ci tengo a chiarirlo subito: non è una tecnica miracolosa, non è moda new age, né una roba per pochi eletti spirituali. È qualcosa di profondamente umano, universale, che ci appartiene da sempre. Ma sai qual è stato l’esempio più evidente per me? La mia esperienza personale. Sì, perché io stesso ci ho provato a meditare. Più e più volte. E, altrettante volte… ho mollato. Perché sembrava troppo complicato. Troppo mistico. Troppo silenzioso. Troppo… tutto. A un certo punto, però, ho avuto un’intuizione semplice: “E se fosse la meditazione ad adattarsi a me, e non il contrario?” Così ho iniziato a prendere i saperi antichi e a metterli in dialogo con quello che la scienza oggi ci dice. Ho tolto il superfluo. E ho messo insieme un percorso semplice. Semplice, ma non banale. E funziona. Oggi medito ogni giorno, da anni. A volte solo tre minuti. Altre volte quaranta. Dipende. Non è una gara. Soprattutto all’inizio, non servono ore. Ma serve costanza. E io credo che la semplicità sia una porta d’accesso potente. Forse non l’unica, ma di certo quella con meno frustrazione e meno senso di colpa allegato. E non parlo solo di me. Ho visto persone che avevano archiviato la meditazione nella cartella “non fa per me” — insieme allo yoga acrobatico e alla quinoa — rimettersi in gioco. Con leggerezza. Amando anche l’imperfezione. E ritrovare qualcosa di prezioso: la gioia di fermarsi. Anche solo per un attimo. E dire: “Sono qui. Ci sono.” E non è perché io abbia scoperto la formula segreta dell’illuminazione da salotto. È che la scienza lo conferma, ogni giorno di più.  Uno studio pubblicato sul Journal of Occupational Health Psychology ha dimostrato che bastano 10 minuti al giorno per 4 settimane per ridurre in modo significativo ansia, stress e tensione fisica. E stiamo parlando di operatori sanitari sotto pressione, non di asceti himalayani. Un altro studio della Harvard Medical School ha evidenziato che, dopo sole 8 settimane di pratica quotidiana, cambia fisicamente la struttura del cervello: aumenta la materia grigia nelle aree legate alla memoria, all’empatia, alla regolazione emotiva. E si riduce l’attività dell’amigdala, la centralina dello stress. E poi c’è uno studio dell’Università di Pavia, che a me piace molto, perché dice una cosa ancora più incredibile: bastano 2 minuti di silenzio per attivare benefici fisiologici misurabili — battito più regolare, pressione più stabile, sistema nervoso più equilibrato. Due minuti. Neanche il tempo di cuocere un uovo sodo. E allora possiamo dedurre che non è il tempo che conta. È l’intenzione. È la qualità della tua presenza. È il ripetere quel piccolo gesto, ogni giorno, anche quando non ti viene. Anche quando hai poco tempo. Soprattutto allora. Per questo dico che tre minuti al giorno possono cambiare tutto. Perché sono tre minuti in cui non scappi. Tre minuti in cui non devi essere migliore, o più calmo, o più saggio. Solo tre minuti in cui sei. Con tutto quello che sei. E se riesci a farlo, anche solo una volta al giorno, allora sì: tanto basta. E tanto vale.

Un consiglio, quindi, per chi vuole iniziare a meditare ma si sente ancora bloccato?

Non cercare di farlo bene. Inizia. Punto. Datti il permesso di sbagliare. Di farlo storto. Di sederti anche con mille pensieri in testa. Di non sapere bene cosa stai facendo — e va bene così. Torna a una dimensione di gioco. Gioco vero. Quello dei bambini, che esplorano senza giudizio. Non mediti per diventare Superman o Wonder Woman. Lo fai solo per essere te stesso. Niente da raggiungere. Niente da dimostrare. Nessun punteggio da totalizzare. Siediti. Rilassa il corpo. Porta l’attenzione al respiro. E ogni volta che la mente si distrae — e succederà mille volte — riportala lì. Al corpo. Al respiro. A quel momento. E sai qual è la cosa bella? Ogni distrazione non è un errore. È una possibilità. Perché proprio nell’accorgerti che ti sei perso… inizia davvero la pratica. È come dire: “Ehi, sono tornato.” Ecco, inizia da lì. Con tre minuti. Con un sorriso. E con infinita gentilezza verso te stesso. E ricordati una cosa fondamentale: cerca il tuo perché. Il motivo per cui vuoi iniziare. Tienilo vicino, rendilo vivo, scrivilo se serve. Perché nei giorni in cui vorrai mollare (e ci saranno), sarà lui a ricordarti perché vale la pena restare. Poi, non sottovalutare i piccoli progressi. Datti l’opportunità di avanzare anche solo dell’1% al mese. Perché è quell’effetto cumulativo, silenzioso ma costante, che cambia tutto. Un giorno ti volterai e scoprirai che sei già molto più avanti di quanto credessi. E permettiti anche di cambiare. Di adattare la pratica con te, nel tempo. Di esplorare nuovi modi, nuovi ritmi, nuove intenzioni. La meditazione non è rigida. È viva, come te. E sì, premiati. Soprattutto all’inizio, quando l’abitudine non è ancora una seconda pelle. Concediti un gesto simbolico. Un piccolo regalo. Un grazie sussurrato. Perché ogni volta che scegli di esserci, anche solo per un istante… stai scegliendo te. E non c’è pratica più potente di questa. 

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