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Tennisti in erba e scoliosi

“Lo sport, se condotto in maniera errata e senza le dovute precauzioni, può fare male”. Intervista a Rodolfo Lisi, esperto in posturologia e in cultura sportiva e autore di 14 libri tecnico-scientifici sullo sport (di cui 13 proprio sul tennis).

Rodolfo Lisi

Negli Anni ’80 si pensava che il tennis, in quanto sport asimmetrico (e alla stregua della stessa scherma), potesse determinare o aggravare una scoliosi vera a propria. Tuttavia, alcune ricerche hanno sfatato questo tabù. È davvero così? Mondosanità lo ha domandato a Rodolfo Lisi, esperto in posturologia e in cultura sportiva e autore di 14 libri tecnico-scientifici sullo sport (di cui 13 proprio sul tennis).

“Non credo, ad oggi, sia possibile giungere a una conclusione definitiva sul rapporto tennis e scoliosi – replica Lisi. “Per i tempi, le metodologie e i costi che le tipologie di studi richiedono. Si tenga presente, a tale proposito, che un’eventuale ricerca dovrà essere comunque sottoposta a studi biomeccanici rigorosi che tengano presenti anche le “catene cinetiche”, ovvero i movimenti e l’attivazione muscolare “a valle e a monte”. Questi studi, a loro volta, si avvarranno di strumentazione adeguata, come EMG di superficie, sistemi optoelettronici per l’analisi 3D del movimento e complessi modelli biomeccanici: il tutto, ovviamente, rapportato al morfotipo, alla racchetta e al grado di tensione dell’incordatura. E poi, al fine di valutare il soggetto nel corso dello studio (e per rendere quest’ultimo attendibile), l’indagine radiografica è considerata il “golden standard” assolutamente indispensabile per confermare l’obiettività clinica e valutare l’entità della curva e la sua correggibilità, nonché l’accrescimento vertebrale e i risultati del trattamento. E non credo, giustamente, che i genitori dei “tennisti in erba” avallerebbero tale metodica in quanto è ben nota la nocività di molteplici radiografie durante l’accrescimento nello sviluppo di tumori (Morin Doody, 2000)”.

E allora, cosa fare? Più precisamente, cosa suggerire ai genitori dei tennisti in erba che presentano una iniziale scoliosi?

Nel mio libro, unico al mondo nel suo genere (Lisi, 2018) ho chiaramente evidenziato come, in caso di una scoliosi prettamente evolutiva la pratica del tennis a livello agonistico deve essere sospesa. In buona sostanza, si tratta di sottoporre un rachide di per sé fragile (i fattori determinanti la scoliosi idiopatica sono numerosi e in parte sconosciuti) a carichi perfettamente sopportabili da rachidi “normali” (Lisi, 2007; Lisi, 2018). Negli altri casi, che sono per fortuna assai più numerosi e frequenti (casi, cioè, nei quali la scoliosi non ha raggiunto una riconosciuta gravità e l’attività tennistica viene praticata solo a livello amatoriale), si può far convivere lo stato del soggetto con il tennis, senza però trascurare una cinesiterapia scientificamente mirata e disciplinatamente eseguita. E non mi si venga a dire che i “benefici del tennis sono superiori al sospetto di una eventuale azione nociva”. In quanto educatore, tale asserzione è inammissibile. Lo sport, se condotto in maniera errata e senza le dovute precauzioni, può fare male. E ben vengano le testimonianze di alcuni addetti ai lavori, come quella di Umberto Ferro, con il suo recente “Quando lo sport fa male” (Ferro, 2022). Tanto premesso, a latere della sessione con il maestro di tennis, l’allievo dovrebbe svolgere esercitazioni di tipo compensativo in quanto l’attività tennistica può comportare un asimmetrico potenziamento dei gruppi muscolari del cingolo scapolare e dell’arto superiore di un lato (come di regola avviene e si evidenzia nei giovani campioni), mentre al controlaterale non compete altro ruolo che quello di alzare la pallina nel gesto del servizio. E, se possibile, affiancare anche esercitazioni di muscolazione addominale e paravertebrale, così da creare un busto muscolare di sostegno che preservi la colonna da eventuali sollecitazioni”. 

Cosa consiglierebbe a un genitore che vorrebbe avvicinare il proprio figlio al tennis?

Alla base delle scelte che molti adulti fanno per i propri figli, probabilmente, ci sono anche motivazioni discutibili dal punto di vista educativo. Sempre più, infatti, il tennis è presentato dai mass media come uno sport praticato da atleti che hanno sacrificato al culto della racchetta tutta la loro infanzia e preadolescenza, cogliendo così la “grande affermazione” a un’età molto precoce. Tanti ragazzi, perciò, vengono avviati a questo sport alla stregua di protesi per le aspirazioni di successo dei loro genitori. Il risultato? L’abbandono precoce. E ciò poiché quella pratica sportiva non viene più riconosciuta dal ragazzo come uno strumento utile alla conquista della propria identità ed evoluzione. Le certezze di una volta non vengono più ritenute tali, e l’adolescente va alla scoperta e alla ricerca di persone, ambienti, sistemi ed esperienze che sappiano soddisfarlo e realizzarlo. Si veda, come esempio, la storia della serba, australiana d’adozione, Jelena Dokic (classe 1983). Ha iniziato a giocare a tennis all’età di appena 6 anni, passando al professionismo nel 1998. La sua carriera è stata condizionata da suo padre Damir, un tipo così autoritario e aggressivo da essere stato escluso più volte dai tornei del circuito WTA. Evitare, poi, l’agonismo precoce e i carichi di allenamento intensi. Cambiare spesso le palline (le palline nuove, avendo il “feltro” intonso, consentono di ridurre le vibrazioni indotte dal contatto “pallina-corda”. Meglio spendere qualche euro in più sulla “prevenzione” anziché migliaia di euro per l’eventuale trattamento di una potenziale e invalidante patologia, vedi la tanto temuta epicondilite). Utilizzare una racchetta adeguata (in base alla morfologia personale e non alla simulazione di quel blasonato Campione), corde in multifilamento e tensioni (incordatura) non eccessivamente elevate (Lisi, 2017). Calcare i primi passi su campi da gioco in terra rossa, o terra battuta (Lisi, 2016). Tale superficie diminuisce il rischio di contrarre infortuni (Bastholt, 2000), checché se ne dica da più parti. I giocatori abituati a superfici che permettono lo scivolamento controllato (come la terra rossa, appunto) – dove, a parità di impulso, il maggior tempo di frenata implica il raggiungimento di forze massime più basse – sono colpiti da un numero significativamente inferiore di situazioni dolorose o di infortuni rispetto a coloro i quali si cimentano su superfici “dure” (Nigg e Yeadon, 1987). Questi riscontri hanno giustificazioni di tipo biomeccanico in quanto, ad esempio, la reazione al terreno, in alcuni colpi, è tre volte superiore su queste superfici rispetto a quella sulla comune terra rossa, così come risulta più elevata l’attività elettromiografica dei muscoli peronei (Tiegermann, 1984)”.

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